Comunicazione e creatività: come funziona il processo creativo in agenzia
Nel mondo frenetico della comunicazione, la creatività è diventata una risorsa essenziale per le aziende che vogliono distinguersi e costruire un legame autentico con il proprio pubblico. Il processo creativo non è solo il mezzo attraverso cui nascono nuove idee, ma anche un percorso di innovazione continua che richiede disciplina, collaborazione e ispirazione costante.
Il processo creativo è il cuore pulsante di qualsiasi azienda che punta ad essere innovativa. Per capire meglio come si sviluppa, quali sfide comporta e quali sono le strategie per incentivare la creatività all’interno del team, abbiamo avuto il piacere di confrontarci con Fabio Bin, Co-Founder e CMO di WeRoad ed Equity Partner di OneDay Group.
WeRoad è conosciuta per le sue campagne creative e disruptive, che in qualche modo hanno rivoluzionato la comunicazione nel settore del travel.
Quali sono i principali elementi che caratterizzano il vostro processo creativo? Fate ricorso a strumenti o metodi particolari?
Il nostro marketing mantra in WeRoad è “Ad=Content, Content=Ad”, perché crediamo che i nostri contenuti debbano prima di tutto intrattenere, ma soprattutto dare una qualche forma di valore alle persone. Non si può semplicemente chiedere attenzione, bisogna dare qualcosa che per le persone sia di valore: qualcosa di divertente, delle informazioni, qualcosa di utile. Dal un lato è un modo per catturare l’attenzione, dall’altro è un modo per dare una sorta di “reward” alle persone per l’attenzione che ci hanno prestato.
Però per farlo dobbiamo tenere presente chi è il nostro target. I nostri contenuti e i nostri messaggi parlano di loro, sono contenuti relatable: ci concentriamo su ciò che è significativo per i trenta-quaretenni, considerando i loro interessi, le sfide che affrontano e la loro situazione economica, sociale e sentimentale. Ci chiediamo cosa li rappresenta, cosa li fa sentire coinvolti e cosa invece li allontana.
I temi della nostra comunicazione partono spesso dal nostro target: sono temi rilevanti per il nostro pubblico, che riflettano le loro esperienze quotidiane. Un esempio è una recente campagna lanciata in città europee come Milano, Roma, Amsterdam, Berlino, Londra, Parigi, Madrid e Barcellona. Questa campagna si focalizza sui problemi che i Millennials affrontano nelle grandi città, come il costo degli affitti. Anche se apparentemente non collegato ai viaggi, trattare questi argomenti con ironia ci ha permesso di legarli a un’altra difficoltà: organizzare un viaggio con gli amici, paragonandolo a comprare casa a Milano – due cose quasi impossibili, ma mentre non possiamo risolvere il problema degli affitti, possiamo aiutare con i viaggi. O più recentemente abbiamo rinnovato per il terzo anno la campagna in cui proponiamo l’elenco dei ponti dell’anno e per la prima volta l’abbiamo portata anche in altri Paesi (Francia, Germania e Spagna): c’è chi ci ringrazia, c’è chi grida alla nostra mancanza di rispetto per chi le ferie non le ha. Ma questo fa parte della voglia di costruire un brand con personalità, che comunque sia, “spicca”. Oppure penso ancora ad una recente newsletter sui buoni propositi dell’anno, girata al contrario: partendo cioè dalla constatazione che i buoni propositi non li porteremo mai avanti. E allora tanto vale abbracciare le nostre umane debolezze!
Ci si potrebbe chiedere cosa c’entra tutto questo con delle campagne pubblicitarie che dovrebbero servire a vendere viaggi. Siamo fortemente convinti che questo modo di comunicare, che parte dal target prima di pensare alla vendita, è alla base del nostro DNA. Non ci limitiamo a parlare dei viaggi che proponiamo, ma esploriamo anche i cambiamenti sociali che il nostro pubblico vive ogni giorno. Parte del pubblico apprezza e quando sarà in fase di considerazione di un viaggio di questo tipo, probabilmente sceglierà (o quantomeno considererà) WeRoad tra le opzioni.
Un altro elemento è quello di andare oltre lo schermo. La vita delle persone non si esaurisce solo sullo smartphone, le persone si muovono e fanno cose nel mondo reale: vanno al lavoro, vanno in palestra, fanno aperitivi, vanno al museo, visitano città, fanno volontariato. Hanno una vita insomma. A volte credo che i brand se ne dimentichino arrivando in alcuni casi a fare all-in sul digitale. Per noi invece organizziamo e sponsorizziamo eventi in tutti i mercati in cui siamo presenti, dai drink informali per socializzare alle attività all’aperto come escursioni o yoga, dalla sponsorizzazione di venue e festival alla collaborazione con le palestre o con il mondo del car sharing.
A legare il tutto è sicuramente un brand che abbiamo voluto costruire con con una personalità marcata: empatica, ironica, talvolta sopra le righe, ma sempre capace di farsi notare e capace di mettersi in relazione e “risuonare” con il pubblico di riferimento. Ecco, quello che ci distingue davvero, credo sia proprio il nostro modo di rapportarci con il target, parlando il loro linguaggio con trasparenza e sincerità. Poi c’è il fatto che, la manifestazione della personalità del nostro brand, si traduce a volte in messaggi su temi controversi oppure molto divertenti. Questo attiva le persone, a volte polarizza (c’è a chi piace e a chi no), e fa sì che la nostra comunicazione entri in circolo ed inizi a girare spontaneamente, dando molta più visibilità alle nostre campagne di quella che è la loro portata naturale.
Come bilanciate il bisogno di campagne creative di impatto immediato con la costruzione di una strategia di brand a lungo termine? Quanto pensate al futuro del brand nelle vostre decisioni di marketing?
Ogni giorno. Nel senso che siamo ossessionati dal futuro del brand. Vogliamo costruire un brand internazionale e che sia sempre nell’hic et nunc, che sia fatto per restare ma anche per evolvere, in modo da essere sempre rilevanti per i viaggiatori di ogni nuova generazione. Per questo, ogni campagna è da un lato un tassello della costruzione del brand, dall’altro un modo per rinnovarne l’identità. Ogni campagna è un mattone di una grande edificio che è il nostro brand, e che è in continua costruzione. Ogni singola campagna anche “iper creativa”, che può sembrare un qualcosa di a sé stante, è in realtà un rinnovare continuamente chi siamo.
Tu vedi una delle nostre campagne e capisci immediatamente che “è WeRoad”, sia per quello che dicevo prima, sia perché con il trigger dell’ironia e a volte dell’argomento controverso, facciamo capire di essere un brand diverso e unico. Quale brand di travel comunicherebbe con un fondo nero e un testo bianco invece di usare foto di spiagge, palme e tramonti? Quale altro brand di viaggi ti direbbe di essere “il miglior modo per far fuori la tredicesima”? Quale altro brand di viaggi pubblicherebbe la lista dei ponti che vanno a beneficio anche di altri operatori? Quale altro brand di viaggi ti direbbe che il pranzo di Natale con i parenti è qualcosa di così stressante che poi ti fa venire bisogno di fare una vacanza dopo la vacanza? La risposta è semplice. Nessuno, solo WeRoad. E le persone ormai lo riconoscono.
Poi c’è il fatto che a volte per temi controversi, a volte per temi divertenti, la nostra comunicazione entra in circolo (c’è a chi piace e a chi no) ed inizia a girare spontaneamente, dando molta più visibilità alle nostre campagne di quella che è la loro portata naturale.
Avete mai rischiato con una campagna creativa che non era “sicura” ma che poteva distinguervi? Come affrontate i potenziali rischi creativi?
La domanda potrebbe essere: “c’è stata una volta in cui non avete rischiato”? Battute a parte, essere ironici e “triggeranti” (passatemi l’anglismo) fa parte del brand WeRoad e quando sei per natura così può accadere di toccare temi spinosi o anche di fare delle cazzate. La campagna OOH sul caro affitti a cui facevo riferimento prima poteva indubbiamente essere rischiosa: a Madrid, per esempio, le nostre affissioni che parlavano della difficoltà di accesso alla casa si sono trovate nel bel mezzo di una manifestazione in cui le persone protestavano proprio per quel motivo.
Abbiamo discusso internamente dell’opportunità di farla o meno, ma poi le persone capiscono che il nostro intento non è fare “brand activism” ma è “questa è la nostra condizione” (la condizione del nostro target), that’s it. Facciamoci un sorriso. Ma al tempo stesso un cartellone è anche un’occasione per dire “vi siamo vicini, perché noi trentenni/quarantenni siamo sulla stessa barca”. Perché di sicuro vogliamo essere (e lo siamo) relatable. Come dicevo prima, ci concentriamo su ciò che è significativo per il nostro target, considerando i loro interessi, le sfide che affrontano e la loro situazione economica, sociale e sentimentale. Ci chiediamo cosa li rappresenta, cosa li fa sentire coinvolti e cosa invece li allontana. A volte ci riusciamo molto bene, a volte molto meno. E siamo consapevoli dei rischi.
Noi mettiamo fuori il messaggio, con l’intento di risuonare con il nostro core target, ma poi, puoi leggerlo come vuoi: stiamo approfittando del tema per fare del banale real time marketing? (c’è chi porta questa critica, specialmente da chi lavora nel settore). Stiamo raccontando una condizione che appartiene e a noi e al nostro target? (c’è chi ci segnala esplicitamente che si riconosce nella cosa, ce lo scrive e lo condivide). Stiamo amplificando una causa in cui il target si riconosce? (c’è chi ha utilizzato in maniera totalmente spontanea le nostre creatività durante la manifestazione)? Non possiamo controllare le reazioni, ma di sicuro da un lato abbiamo una necessità di comunicare, dall’altro vogliamo catturare l’attenzione e sì, vogliamo generare reazioni. E in questo non ci diamo limiti perché andiamo da temi molto relatable come il caro affitti, a cose più sciocche come il manifesto “Suona il clacson se hai bisogno di una vacanza” che tante critiche ci ha procurato, ancora una volta specialmente da chi lavora nel settore.
Capita a tutti di trovarsi in un momento di blocco creativo.
Quali strategie utilizzate per mantenere il team motivato e ispirato quando le idee scarseggiano? Il brainstorming funziona ancora come momento collettivo per stimolare la creatività?
Se devo dire qual è una delle mie più grosse preoccupazioni è la capacità di mantenere alta l’asticella. Ho visto nel corso degli anni la parabola discendente di brand di cui mi ero follemente innamorato per l’approccio creativo e per l’aver fatto campagne eccezionali: putroppo è stato sempre un periodo di tempo limitato. Una wave di 2-3 anni, magari legata ad un cambiamento organizzativo, ad un riposizionamento, al focus della leadership, una wave che poi inevitabilmente si esaurisce.
Forse eccezion fatta per Liquid Death, non ho visto brand che siano stati costanti e consistenti per periodi di tempo molto più lunghi. Per questo da un lato sono terrorizzato dall’aver esaurito idee, in fondo lo stiamo facendo da quasi 8 anni, dall’altro sono sempre preoccupato per la qualità delle nuove idee. Saremo all’altezza di quello che abbiamo fatto prima? È come una band: il primo disco spacca, il secondo magari è appena all’altezza, ma poi diventa sempre più difficile mantenere lo standard. Però penso che ce la stiamo ancora cavando e in alcuni casi riusciamo a fare cose di cui siamo davvero orgogliosi. Credo sia perché le nostre idee nascono in maniera molto spontanea e dal basso. Non abbiamo un framework strutturato, ma posso dire che abbiamo dei pilastri, che appunto sono quelli della relatabilty (quanto una certa cosa risuona con li target, soprattutto dal punto di vista della sua condizione sociale, culturale, relazionale), del potenziale di attenzionalità/viralità, della rapidità (essere on time e on point prendendo spunto da quello che succede attorno), ma anche della diversità (ovvero non fare quello che fanno tutti gli altri). Vedo costantemente un’omologazione e delle cose di basso livello ad esempio quando si cerca di fare quello che va di moda: qualsiasi azienda che copia lo Spotify Wrapped pensando di essere creativo e simpatico quando è solo cringe. Ecco, un altro pillar è quello di non fare real time marketing sui temi mainstream cavalcati da tutti. Ma la vera verità è che il team ha completamente interiorizzato queste cose. Sa cos’è WeRoad e cosa non lo è.
Poi le idee vengono in continuazione, a volte le scarichiamo a terra subito, nel giro di ore/giorni, ma per lo più vanno in un repository di potenziali idee per il futuro, per quando sarà il momento buono, e molte di queste si concretizzano dopo anni e magari mai. Ma il punto è che si tratta di un processo ongoing. E sì, facciamo anche brainstorming dedicati (cosa che personalmente non amo) ma la visione di fondo è di essere costantemente pronti a trasformare spunti in idee creative, indipendentemente da chi arrivano. Possono arrivare da chiunque: dai team più creativi del marketing ma anche altri team, da chi segue i coordinatori, chi fa si occupa di tour operating o di tecnologia. L’approccio è sempre “e se facessimo…” e da questa apertura alla possibilità di fare quello che ci viene in mente, nascono poi le nostre campagne.
Uno dei punti di forza di WeRoad è il legame profondo con la sua community.
In che modo i feedback e le interazioni con i WeRoader influenzano le vostre campagne e strategie di comunicazione?
Penso da sempre che il termine community sia uno dei più abusati in ambito business e marketing. C’è chi confonde (furbescamente) i propri clienti, o peggio ancora la propria followerbase, con la community. Ed è per questo che lo trovo un termine scusate se lo dico, un po’ “paraculo”. Eccezion fatta per WeRoad. Sarò di parte nel dirlo, ma vi assicuro che WeRoad è davvero un community business. E a diversi livelli.
I coordinatori sono la più attiva e ingaggiata community, 3.000 persone di oltre 20 Paesi che vivono in giro per l’Europa (e qualcuno anche fuori), persone che si auto organizzano in “chapter” locali, che creano i propri eventi e che partecipano attivamente alla vita – anche business – di WeRoad tramite organismi nazionali e internazionali come l’Ambassador Committee, un organo parzialmente elettivo in cui coordinatori che incarnano diverse anime della community portano i propri feedback e le proprie proposte per migliorare l’esperienza di un viaggio WeRoad, ma anche le relazioni all’interno della community stessa.
Ma la community è ovviamente anche quella dei WeRoader: c’è chi ha fatto un solo viaggio con noi, ma il 60% ha fatto più di un viaggio e ci sono veri e propri regular. Queste persone stabiliscono relazioni e contatti con i loro gruppi, specialmente a livello locale e diventano anche promotori di eventi auto organizzati sia unoffical che official (sta succendo nel mercato inglese per esempio). E c’è sicurmente quel mondo di follower, curiosi, che non posso definire una community ma che consumano ogni giorno i nostri contenuti e interagiscono con noi. Quando diventano clienti, dichiarano che i contenuti sui social sono stati un elemento determinante nella loro scelta. E tutti quando si incrociano per strada, ad un festival, in un locale se vedono un segno di riconoscimento iniziano a parlare di WeRoad e dei viaggi. Proprio l’altro giorno parlavo con una persona, che ha viaggiato un paio di volte con noi, e mi ha detto: “Anche quest’anno che non ho potuto viaggiare ho sperimentato la mega comunità di WeRoad perché ho conosciuto a Milano, nei contesti più random, tante ragazze e vostre coordinatrici, e basta dire ‘Aaaah WeRoad! Vi conosco’ per fare amicizia. È veramente una mega community.” Ecco, queste community vengono ascoltate in continuazione. Direi che siamo ossessionati dall’ascolto e dal feedback. Lo chiediamo attivamente per capire dove migliorare, soprattutto lato livello qualità del prodotto e qualità dei coordinatori. Lo chiediamo tramite i coordinatori e chiediamo il feedback stesso dei coordinatori. E se è vero che la nostra ossessione per il il feedback è indirizzata a migliorare l’esperienza dei nostri viaggiatori, il fatto di essere sempre vicini a WeRoaders e Coordinatori ci permette di essere sempre sul pezzo nelle conversazioni e capire cos’è rilevante per il target, e quindi anche trarre ispirazione per le nostre campagne, che non sono altro argomenti di discussione tra il target.
Per loro stessa natura, alcune aziende sono più predisposte alla creatività di altre.
Quale consiglio daresti a chi cerca di promuovere la creatività all’interno della propria realtà?
Penso che l’essere più o meno creativi dipenda prima di tutto dal DNA dell’azienda e dalla sua leadership. Nel caso di WeRoad, sia Paolo che io abbiamo sempre condiviso l’idea che comunicare e fare cose “strane” sia nel DNA non solo (e non tanto) del brand, ma dell’azienda stessa. Non è il marketing di WeRoad che è creativo. È l’azienda che è creativa. E questa cosa è stata poi naturalmente trasmessa agli altri membri del team. È naturale per noi avere questo approccio. Se lavorassi in un’altra azienda probabilmente dovrei convincere il mio capo, o l’amministratore delegato, circa il fare certe iniziative. E nel 90% dei casi non avrei possibilità di successo in quest’opera di convincimento perché non avrei numeri da portare. Investire sulla creatività e sul brand building è una cosa che paga solo se fatta in maniera consistente (non può essere un fuoco di fiamma) e nel lungo periodo. Le metriche che si muoveranno, quelle che cerca il business, si muoveranno solo sul lungo periodo. Una grande scommessa. Quindi, il primo consiglio che darei, non lo darei a chi si occupa di marketing, ma a chi guida l’azienda: datevi una chance di capire, perché nel lungo periodo questa cosa ha senso e plasmate l’azienda di conseguenza. Guardate a brand come Liquid Death che, vendendo acqua, ha rivoluzionato il settore puntando esclusivamente sulla creatività. O a quelle aziende che, grazie alla forza del loro brand, performano lato business e il valore delle loro azioni è decisamente sopra il market standard.
A chi lavora tutti i giorni nel marketing, e quindi si trova ad avere a che fare con la creatività, invece suggerisco tre cose: la prima è di iniziare a pensare le creatività in house (e non appoggiarsi sempre sulle idee dei professionisti e delle agenzie). La seconda, nel fare questo, è di rimuovere le sovrastrutture e allentare i processi approvativi: per innestare un mindset creativo bisogna lasciare libertà e lasciare che il team lavori in autonomia. Bonus tip: non censurare le idee. Quando si pensa ad un’idea e poi la si sviluppa, magari non funziona o forse ci convinciamo che non è il caso. Ma se ci si censura all’inizio, non dai la possibilità alle idee di emergere. La terza infine è di farlo con costanza, ogni giorno, e non limitarsi alle campagne, ai flight, ai momenti in cui si deve comunicare. Se ti viene in mente un’idea, sviluppala e, per esempio, pubblica quel post. Può essere rischioso, può andare male… Ma quanto male? Poi fallo anche il giorno successivo e quello dopo. Solo così si creerà un’abitudine e si formerà un mindest orientato al pensiero creativo.
Conclusione
La creatività, nel contesto di un’agenzia di comunicazione, non è un processo statico o isolato, ma un flusso dinamico che si nutre di intuizione, strategia e conoscenza del pubblico. Dall’intervista con Fabio Bin, emergono alcuni aspetti fondamentali che caratterizzano un approccio vincente alla creatività nel marketing e nella pubblicità:
- La capacità di parlare direttamente al target con contenuti rilevanti e coinvolgenti.
- La volontà di osare e di trattare temi che possano suscitare reazioni contrastanti, costruendo campagne che vanno oltre il semplice messaggio pubblicitario.
- La produzione di contenuti digitali e contenuti offline per rafforzare il legame con la community.
In un panorama comunicativo sempre più competitivo, il caso di WeRoad rappresenta un esempio di come il giusto mix di creatività, strategia e audacia possa tradursi in un marketing di successo. L’invito per le aziende che vogliono emergere è dunque quello di investire nella costruzione di un’identità forte e distintiva, capace di evolversi con il proprio pubblico e di lasciare un segno duraturo nel mercato.