Skip to main content
LEWIS

Di

TEAM LEWIS

Pubblicato il

Luglio 13, 2023

Tag

Nel quinto episodio di Una Cosa Al Volo, parliamo con Gaia Spizzichino, content creator, scrittrice e autrice della celebre pagina Instagram Normalize Normal Homes.


Ascolta l’episodio 5

Gaia Spizzichino – Normalize Normal Homes

Gaia Spizzichino, 35 anni di vita di cui l’ultimo 30% trascorso a Milano, città a cui deve questa mentalità numerica, data driven, direbbero loro. Il primo 70% lo ha passato a Roma, per lo più nel traffico.

Lavora come manager, ma non è ancora diventata influencer di Linkedin.

Sul suo profilo Instagram @normalizenormalhomes affronta i grandi temi della sua generazione: casa, lavoro, matrimonio, capelli, con leggerezza e (auto)ironia, scardinando quella narrazione costantemente ottimistica che è spesso insostenibile, se non dannosa.

Detesta viaggiare, ma solo perché deve farlo in economy. Per questo ha creato un alter ego, Ginevra Masuelli (@_wanderlust.89) che invece lo fa a tempo pieno.

Non ha progetti per il futuro, a parte avere un futuro, che le sembrerebbe già una gran cosa.

•·················•·················•

Alessia: Oggi c’è sempre più desiderio di normalità, anche e soprattutto sui social network. Ne sa qualcosa la nostra ospite di oggi, Gaia Spizzichino, content creator e ideatrice del profilo Normalizenormalhomes. Ciao Gaia.

Gaia: Ciao, grazie per questo invito, sono molto contenta di essere qui con voi oggi.

Alessia: Allora, partiamo subito da questa avventura, appunto, il profilo Normalizenormalhomes. Cosa significa? E soprattutto, come è nata l’idea?

Gaia: Normalizenormalhomes nel senso letterale del termine significa “normalizzare le case normali“. Però, ovviamente, il titolo fin dall’origine è abbastanza una provocazione. Nasceva un po’ quasi come un manifesto, come una risposta culturale a questa tendenza che dominava sui social soprattutto un paio di anni fa, di questi profili con delle case perfette, instagrammabili, minimaliste, aesthetic come dice il celebre hashtag che le accompagna.
E quindi un po’ come era successo con il movimento (serio quello, al contrario del mio profilo) Normalize Normal Bodies, si voleva un po’ cercare una sorta di orgoglio in quelle case che appunto ho definito normali, cioè le case che non hanno tutti questi elementi di coolness da rivista d’arredo. E poi, col tempo, il profilo si è allargato anche ad altri argomenti e il normalizzare si è esteso anche ad altri ambiti delle nostre vite, in cui il divario tra aspettative e realtà può essere un pochino ampio.
Come nasce il profilo mi chiedevi. Il profilo nasce per caso, come tutte le cose più divertenti nella vita. Ho iniziato a condividere questo tipo di contenuti ironici sul mio profilo privato, riscuotendo un successo che non immaginavo. E a quel punto mi hanno consigliato di metterli su un profilo dedicato e io l’ho fatto con grande scetticismo, pensando che mi avrebbero seguito solo i parenti.
Invece il profilo è diventato virale in pochi giorni e questo sentimento di rivalsa evidentemente ha trovato molti proseliti.

Alessia: In una recente intervista dici che la normalità è tutto quello che non fa notizia, ma non per questo è meno interessante, perché riguarda modi e stile della vita della stragrande maggioranza delle persone. Eppure, alcune volte la percezione è che la normalità ancora non influenzi abbastanza. Secondo te è effettivamente così?

Gaia: Secondo me sì nella misura in cui, ed è molto naturale e mi ci metto anch’io in mezzo a questo calderone, noi tendiamo a cercare al di fuori di noi dei modelli che siano in una qualche misura aspirazionali. Ed è ovvio che poi a far notizia siano le questioni e le persone più eccezionali. È inevitabile, è proprio umano, fa parte anche dell’agenda setting.
Però è anche vero che c’è una sorta di controtendenza ormai. Tutte le cose, tutti i fenomeni a un certo punto raggiungono un apice e poi vengono messi in discussione e soprattutto, da quello che ho visto succedere su Instagram, che le persone hanno iniziato un po’ a stufarsi di questi racconti, di questo storytelling sempre idealizzato, sempre euforico. Che è impossibile che corrisponda al vero lo sappiamo tutti, ma c’era comunque un patto di accettazione reciproca. E adesso invece si cerca e si chiede agli influencer, ai content creator, di offrire dei modelli che siano più empatici, più relatable e più autentici. Quindi non è che una persona si deve vergognare, ovviamente, se ha uno stile di vita agiato, non è quello il punto. Però non venderci una favola, perché sappiamo che la favola non esiste per nessuno.

Tommaso: Ma secondo te, questa esigenza viene più magari da una generazione come può essere la Generazione Z? Che comunque è quella generazione un po’ più attiva, un po’ più attivista, diciamo, sui social e si fa un po’ più sentire. Magari hai potuto notare qualcosa?

Gaia: Allora, qua ti dò ovviamente la mia opinione, che è un’opinione personale, quindi lascia il tempo che trova. Personalmente credo che la Generazione Z sia diversissima dalle generazioni che l’hanno preceduta, inclusi i Millennial. Ed è verissimo quello che dici: sta sicuramente imponendo un altro modello culturale. Non lo sta facendo su Instagram, lo sta facendo su TikTok, con altre modalità.
Credo che quello che sta invece succedendo rispetto all’argomento di cui parlavo prima riguardi soprattutto la generazione dei Millennial e riguardi un po’ il fatto che stiamo diventando tutti quanti adulti. Stiamo, dico prima persona plurale, perché anch’io ovviamente sono una Millennial fatta finita. Stiamo facendo i conti con questo divario fra ambizione e risultato, soprattutto rispetto a quelle che erano le aspettative di cui ci hanno caricato i nostri genitori, quelle che sono poi le soddisfazioni che stiamo traendo dalla vita professionale e personale in una contingenza economica e sociale che dire che è difficile, ovviamente, è usare un eufemismo. Quindi no, credo che arrivi da noi un pochino questo bisogno di realtà, perché la realtà la conosciamo, è difficile e non abbiamo più voglia di credere alle favole. Non per questo vogliamo buttarci giù, però vogliamo empatia nei nostri alti e bassi.
La Generazione Z credo che stia vivendo un’altra fase della vita e poi arriverà a fare i conti anche lei, ovviamente, con i terribili trent’anni e tutto quello che comportano.

Alessia: Parlavamo di questa ricerca, appunto, della normalità da parte di chi fruisce i contenuti. Ma come stanno rispondendo in tal senso i content creator?

Gaia: Secondo me, da quello che vedo, i content creator o chiunque faccia questo lavoro, mi ci metto io in prima persona, analizza quello che il pubblico vuole e cerca di dare al pubblico quello che vuole. È inevitabile. Credo che molti di loro abbiano intercettato questo nuovo paradigma e stiano rispondendo anche adeguatamente, offrendo dei modelli più empatici, che poi non sempre vengono accolti bene dal pubblico. Perché il pubblico sa essere crudele: a volte ha voglia di questa empatia, altre volte dice “Parli te che hai una situazione privilegiata?”. Perché poi, magari, il content creator di turno può essere una piccola partita IVA che arranca alla fine del mese, così come può essere la persona dalla vita più agiata. Dire content creator vuol dire tutto, è sfaccettato. Quindi, dall’altra parte, appunto, il pubblico a volte chiede questa normalità e poi però, quando la vede, non le crede. Quindi, insomma, è una situazione abbastanza difficile da ambo le parti.
Comunque, vedo che stanno cambiando molte cose. Vedo che non ci sono più quei contenuti gridati, quello stile di vita eccessivo che veniva invece prima venduto come aspirazionale. Questo, riprendendo la tua giusta domanda e provocazione Tommaso, lo vedo accadere più alla Generazione Z su TikTok. Questi ventenni che, giustamente anche, si godono la vita e, nel caso siano dei content creator di successo, si godono viaggi clamorosi e uno stile di vita sopra le righe che non appartiene a nessuno dei loro coetanei, creando poi una serie di polemiche che vediamo pacificamente apparire qua e là. Quindi, forse è anche una fase dell’età, non è soltanto un trend sociale.

Alessia: Tra l’altro mi ricollego a quello che hai appena detto su queste aspettative un po’ tradite da parte degli utenti, quando magari un content creator cambia un po’ approccio. È notizia che Marie Kondo ha deciso di rivelare che il metodo Konmari evidentemente non può essere più utilizzato, almeno per lei, perché ha tre figli quindi non riesce più a organizzare tutto nei minimi dettagli. Evidentemente non sente neanche più lei la scintilla in tutte le cose che la circondano. Ecco, lì è stato molto interessante il fatto che chi la seguiva, i suoi follower, si sono sentiti molto traditi, perché hanno detto “Come, ha creato un impero su questo fantomatico metodo dell’ordine e ora ha rivelato un po’ un’altra faccia?”. Fa parte, secondo te, anche questo di normalizzare effettivamente quella che è la propria vita, in questo caso di Marie Kondo sui suoi social?

Gaia: Guarda, è una bellissima domanda perché io mi sono chiesta a lungo perché Marie Kondo abbia fatto questa cosa, appunto. Ne avevo scritto sul mio profilo commentando questa vicenda, in quanto forse massima studiosa italiana del fenomeno Marie Kondo. Francamente, a meno che lei non abbia un’idea di marketing legata a questa scelta, che sia magari appunto di diventare una paladina, una guru di qualche altro aspetto della vita più legato alla conciliazione, come stavi giustamente accennando tu. Io ho scritto: “Marie, non veniamo a casa tua a guardarti nei cassetti. Potevi continuare a farci credere che, come nel tuo lavoro, anche nella tua vita privata tu applicassi il tuo metodo”. Anche perché, parliamoci chiaro, siamo tutti umani.
Da una parte apprezzo che persino la più grande guru dell’ordine dica “Ho tre figli e una casa sottosopra”, dall’altra tu fatturi con un metodo che vendi alla gente dicendo loro che applicare quel metodo è possibile, che applicare quel metodo migliora le vite. Quanto può essere credibile se tu stessa dici che quel metodo su di te non si applica? Quindi da una parte questa presa di coscienza di Marie è stata presa da molte persone come “Ah, che bello mi ha liberato, finalmente persino lei ammette”. Dall’altra, però, ricordiamoci che quella roba tu l’hai venduta. Sarebbe come vendere una dieta e poi dire “Guardate, io non la seguo però quella dieta perché è infattibile”. Dici s” Ma scusa…” – mi sono autocensurata perché stavo per dire una cosa in romano abbastanza emblematica – “Mi hai venduto frottole”.

Tommaso: Ci siamo detti un po’ cosa significa normalizzare, portare la normalità nei social. Ora vorrei farti una domanda per la quale magari ti servirà il buon NIC, il nostro buzzer, che sta per “Not Intersting Content”. Se vuoi pigialo, quando vuoi.
Io volevo sapere, più che altro, se questa normalità poteva essere affiancata a quel fenomeno che ora si sta facendo sempre più sentire dell’anti-influencing, collegato all’hashtag #deinfluencing, che porta determinati influencer a fare un po’ un’attività opposta a quella che hanno fatto fino adesso: di base, sconsigliare determinati prodotti. Tu come percepisci questo fenomeno?

Gaia: Il deinfluencing secondo me è un fenomeno interessante, come tutti i fenomeni che gemmano da TikTok e che arrivano dalla Generazione Z. Chi mette un po’ in discussione il paradigma precedente è sempre interessante. Diciamo che un bravo content creator, generalmente, vive un po’ nel terrore di parlare male di qualche brand per non inimicarsi un futuro cliente. Insomma, questa imprenditoria anche abbastanza spicciola.
Secondo me, da una parte si è portati a fidarsi di più, per assurdo, di chi ti sconsiglia un prodotto rispetto a chi te lo consiglia. Perché un conto è dire “Guarda, mi sono trovato malissimo, fa schifo”, un conto invece tessere le lodi e, a maggior ragione, essere pagati per tessere le lodi. Uno mangia parecchie foglie, insomma. E quindi da una parte può sembrare ed è sicuramente in parte una scelta di massima trasparenza. Dall’altra, francamente, rischia di essere a mio avviso troppo polarizzante, perché l’esperienza con un prodotto è sempre soggettiva. L’esperienza negativa, a maggior ragione, lo è ancora di più. Ma faccio un esempio banale: io ero indecisa se comprare o meno questo ferro per arricciare i capelli, adesso non dirò la marca. Avevo fatto un po’ di ricerca online, il pubblico era diviso: c’era chi diceva “Mi ha cambiato la vita”, chi diceva “Inutile” o “Soldi buttati”. Alla fine, l’ho comprato usato, da una persona che ci si era trovata malissimo e io mi ci sto trovando benissimo. Pensare come content creator di dire “No, questo prodotto è pessimo”, quando in realtà è pessimo per me ma può essere ottimo per qualcun altro, è una brutta pubblicità che personalmente non vedo motivo di fare. Però capisco che il fenomeno sia affascinante.

Alessia: Allora giustamente, anche un po’ riprendendo il tema della normalità, così come il nome del tuo noto profilo, spesso hai parlato di normal washing, che in qualche modo si ricollega appunto al tema del deinfluencing. Però in qualche modo, forse, è uno step ancora oltre, perché lì non si tratta semplicemente di non consigliare dei prodotti, ma significa proprio in qualche modo ridare un’immagine un po’ diversa da quella che si era data in precedenza. Ecco, cosa significa proprio nel concreto?

Gaia: Il normal washing è ovviamente un’ennesima mia provocazione, è un qualcosa di molto ironico che si rifà un po’ al mondo del pink washing o del green washing o del rainbow washing; quindi, di tutte quelle narrazioni che sono in teoria dalla parte di determinate cause e poi in realtà è solo facciata. Ecco, allora, io scherzo molto e parlo di normal washing quando c’è qualcuno che palesemente sta vendendo una situazione, sta usando uno storytelling assolutamente idealizzato che però ti vuole spacciare come normale, vicino, relatable e magari, appunto, lo fa con dei codici estetici al 100%.
Faccio proprio l’esempio concreto, così si capisce bene. Se io sono un’influencer che generalmente vende sempre un’idea di sé e della propria casa perfettamente in ordine e un giorno faccio un contenuto dove si vedono tre calzini disposti ad arte su un tavolo dicendo “Oh mamma, oggi ho rimesso via il bucato e ho la casa tutta sottosopra”. E tu vedi sti tre calzini sistemati ad arte con la tazza di caffè accanto, la guardi e le dici “Tesoro mio, ma che stai dicendo? Ma chi ci crede?”. Questo è il normal washing ed è un po’ la risposta a quello che dicevo prima, visto che il pubblico ti vuole bene in un certo modo, allora tu ti vendi in quel modo, ma non è detto che sia autentico.

Tommaso: A me questo comunque fa pensare all’altra parte, vedendola proprio dal punto di vista dell’utente, ogni tanto sembra di vedere che certi utenti nascondano la propria normalità per poter apparire e magari puntare a essere degli influencer; quindi cercano sempre di fare contenuti particolari, molto curati, ecco. Quindi, secondo me, certi utenti non richiedono questo tipo di normalità. Non so se sei d’accordo con questa cosa.

Gaia: Ho capito perfettamente cosa intendi. È vero, a volte io vedo dei contenuti di persone normalissime con pochi follower, con profili privati costruiti ad arte in un modo che neanche appunto i content creator pagati per farlo. Ci penso, magari ti assoldo e vieni a casa mia a farmi i reel e le storie perché vedo che hai un talento. Non lo so perché lo fanno, lo fanno perché mettono in atto in automatico dei codici di comunicazione che dopo anni di esposizione a Instagram evidentemente hanno fatto propri. Lo fanno perché hanno quel gusto lì, perché gli piace proprio creare anche un racconto della propria vita fatto in quel modo, collezionare ricordi fatti in quel modo. Quindi sì, hai ragione, questa forse da una parte è l’ultima categoria che andrebbe a chiedere “normalità”, perdonatemi l’utilizzo di questo termine, a un creator, a un influencer. Però, invece, poi paradossalmente magari sì, perché è proprio per la fatica che impiega per costruire una propria narrazione fatta in quel modo che non perdona invece alla persona nota di vendergli una vita fatta di un’assenza di imperfezione, quando lui stesso fa tutta quella fatica per nasconderla la propria imperfezione. Però, ripeto, poi si tratta anche davvero di fare lo psicologo un po’ da due lire, vai a sapere… Io personalmente credo che la maggior parte delle persone che sono oggi sui social apprezzi un tipo di narrazione diversa. Poi ci sono ovviamente dei distinguo.

Alessia: Appunto, un po’ ricollegandoci a questo discorso, non pensi anche che questa rinnovata voglia di normalità sia anche dovuta al fatto che siamo tutti normali, quindi la normalità ci appartiene? Non devi necessariamente essere un influencer come ai tempi d’oro e quindi in qualche modo permette un po’ a tutti noi, nel nostro piccolo, di sentirci dei potenziali content creator.

Gaia: Sì, sicuramente c’è anche questo. Hai ragione e credo che ci sia proprio un effetto specchio, ovvero che chiunque di noi ama riconoscersi in qualcun altro. Ogni volta che un personaggio noto alza la mano e magari parla, non so, di una patologia, parla di un aspetto della sua vita che aveva tenuto nascosto fino a quel momento e che aveva considerato o che magari è considerato un tabù per la società, allora chi si trova nella medesima situazione gioisce di quell’effetto specchio e questa cosa probabilmente succede anche rispetto al discorso che stiamo portando avanti sulla normalità. Forse, il messaggio che ricevo più in assoluto nei miei direct è “Guarda, c’è lo stendino a casa di Chiara Ferragni” e tu gli vorresti dire “Sì, ho capito, ma le mutande le dovrà stendere pure lei”. Tra l’altro presumo che paghi qualcuno per stenderle al suo posto, sarei preoccupata se fosse il contrario. Perché è così strano che giri uno stendino in quella casa? Perché forse Chiara ci tiene che si veda nelle sue storie? Perché è nell’interesse di tutti vendere, nel suo caso un “Restiamo comunque, sotto sotto, una famiglia normale come voi” e dall’altra parte nelle persone che la vedono pensare “Ah vedi, anche lei che ha due figli, ha sempre lo stendino pieno di body e di tutine”. È un effetto specchio, quindi funziona per quello secondo me.

Tommaso: Ma come ci si può educare alla normalità?

Gaia: Eh bella domanda. Secondo me un’educazione alla normalità passa semplicemente per una sorta di analisi che uno fa anche delle proprie aspettative, un ridimensionare le aspettative, che non significa per forza abbassare gli standard, non impegnarsi, non essere più ambiziosi. Non è quello. Però è anche saper accettare gli alti e bassi della vita e ricordarsi che non esistono modelli per cui questi alti e bassi non ci sono, insomma, che fanno parte della vita di chiunque. Ci si educa un po’ in questo modo.
E, tornando al discorso di prima, chi in questi giorni ha detto “Ah, mi ha fatto sentire meglio Marie Kondo che ha ammesso di avere la casa sottosopra”, quella in un certo senso è l’educazione alla normalità. Non ti serviva Marie Kondo per capirlo, ad alcuni magari serviva, ma non c’è niente di male nell’avere alcuni giorni la casa sottosopra e nell’averla invece in altri giorni tirata a lucido. Pensare che tu debba averla tirata a lucido tutti i giorni, ecco, quella non è normalità ed è quello che è pericoloso. Pericoloso forse è una parola forte, però ci siamo capiti.

Alessia: Giustamente parlavi di accettare gli alti e bassi della nostra vita. Ecco, probabilmente non credi che a margine di tutto questo c’è un problema molto grosso che un po’ contraddistingue la nostra società ed è quello di non riuscire ad accettare il fallimento? Forse passa da lì. L’accettazione del fallimento, ti porta anche a capire che, appunto, siamo tutti vulnerabili e siamo tutti normali, anche con la nostra dose di punti persi, mettiamola così.

Gaia: Mi hai dato uno spunto bellissimo. Hai detto una cosa secondo me molto giusta, che tra l’altro io sento particolarmente vicina perché io personalmente ho una grandissima difficoltà ad accettare il fallimento… Dove il fallimento può essere qualcosa di molto grosso, come può essere anche arrivare cinque minuti in ritardo alla registrazione di questo podcast. E sì, hai ragione: viviamo in una società che non aiuta nessuno, ad accettare il fallimento. Io adesso non voglio gettare una luce tetra su questa piacevole chiacchierata che stiamo facendo un po’ da addetti ai lavori, però la notizia di cui si parla in questi giorni, anche sui social, riguarda il suicidio di questa ragazza in università. Io non conosco i dettagli della sua storia, ma non credo sia rilevante in questo momento, quanto quello che rappresenta. Forse non tanto il fallimento in sé, ma anche solo la paura del fallimento e del doversi poi confrontare in società con quel fallimento. Ed è facile, quando si è più grandi, guardarsi indietro e dire “Tesoro mio, ma non importa. Quella roba non è importante”, ma è un privilegio essere andati avanti e potersi guardare indietro e dirlo. In quel momento, per quella persona, quella roba è tutto il suo mondo. Ed è una responsabilità dei media e della società non caricare le persone di aspettative, al punto che questi vivano nel terrore di deludere quelle aspettative.

Alessia: Ecco, uno dei grandi trend, prima dei blog e oggi dei social media, è sicuramente la questione delle cosiddette mamme blogger o più in generale tutti quegli influencer che nel loro storytelling quotidiano, comunque, inseriscono anche i figli, generalmente minori, molto molto piccoli. Ecco, su questo il dibattito oggi è molto spaccato, nel senso che c’è una grossa fetta di quelli che poi sono gli utenti che non sono molto concordi nello “sfruttare” così tanto l’immagine appunto di minori. Dall’altro lato, invece, spesso sono influencer che sono seguiti proprio per quel motivo, proprio perché sono appunto mamme blogger, hanno una famiglia, hanno dei bambini molto piccoli e in qualche modo ci si può anche rivedere, diciamo, nelle gioie e dolori dell’essere genitori oggi. Ecco, tu come ti inserisci un po’ in questo dibattito?

Gaia: Mi hai fatto una bella domanda, perché è un dibattito che sento particolarmente vicino e su cui sto facendo delle riflessioni. È innegabile che i contenuti che hanno per oggetto i bambini performino meglio, i numeri sono sotto gli occhi di tutti e sono anche comportamenti che noi abbiamo come utenti. Io lo faccio proprio come riflesso pavloviano: se vedo un bambino in un contenuto mi viene più facile mettere like e mi viene più facile interagire. Questo i creator lo sanno. E allora è chiaro che a quel punto ci si pone un dilemma etico: utilizzo o non utilizzo i miei figli sul mio profilo? Li mostro o non li mostro? E se scelgo di non mostrarli, per tutta una serie di motivi che esistono e che sono validi, io so che rinuncio a potenziale engagement e sappiamo tutti che l’engagement si monetizza. Che non vuol dire fare contenuti adv con il bambino, significa semplicemente tirare su la media del profilo, avere visualizzazioni più alte, avere interazioni più alte, in modo che poi quando fai l’adv senza bambino performi meglio. Questa, insomma, in poche parole è la ricetta.
Non c’è una risposta, nel senso che non c’è giusto, non c’è sbagliato. Ci sono delle opinioni. Ogni genitore traccia un confine quando si tratta di crescere i propri figli. Lo fa in tantissimi ambiti, non per forza solo quello legato ai social. Come non esiste una genitorialità unica, non può esistere neanche in questo approccio. Di nuovo torno a citare la Ferragni, perché è ovviamente sempre emblematica quando si parla di influencer marketing, l’ha inventato lei questo lavoro. Però noi non siamo lei, nel senso che quando lei e Fedez hanno spiegato la loro scelta di esporre i propri figli, sono stati molto chiari, molto trasparenti, hanno detto “Noi abbiamo scelto di vivere questa vita, di metterci sotto i riflettori e di offrirvi una sorta di reality permanente. Sappiamo come si comportano i media con i figli dei famosi, sappiamo cosa vuol dire avere i paparazzi, sappiamo una serie di dinamiche. Noi preferiamo fare la scelta di esporre i nostri figli, così noi abbiamo il controllo e non abbiamo questo grande mistero ‘Chissà come saranno i figli di Fedez e Chiara’ per cui abbiamo i fotografi che ci circondano casa, perché sperano di vederli scendere con la tata”. Ed è una scelta che io non solo capisco, ma che dal loro punto di vista secondo me è molto sensata e che credo che abbia pagato, perché sui media tradizionali non c’è nessuna ossessione per questi bambini. È tutto nel loro controllo. Però, appunto, noi non siamo loro, non abbiamo questo problema.
Io a breve avrò un figlio (o una figlia, non ho ancora detto il sesso) e alla stampa non gliene potrà fregare di meno. Quindi la scelta di esporla o meno e di far conoscere questo bambino ai miei follower è una scelta soltanto mia ed è una scelta che io personalmente preferisco non fare, nel senso che preferisco tutelare la privacy di questa persona. Non voglio dire che quindi chi fa una scelta diversa sbaglia o è un mostro, si fa a propria sensibilità, si fa sulla base di quello che qualcuno si sente. Nel mio caso io ho scelto di espormi, ho scelto di raccontare poi una parte della mia vita, perché non c’è tutta la mia vita sul mio profilo Instagram, e voglio raccontare la maternità, voglio contribuire a dare anche un nuovo storytelling della maternità che sia appunto normalizzante. Come lo è il resto dei contenuti sul mio profilo. Voglio farlo senza rivelare dati sensibili o il volto del mio futuro figlio. Questa è la mia opinione, ma è la mia.
Diciamo che in generale, secondo me, ci vorrebbe un maggiore intervento da parte delle istituzioni, un maggiore codice deontologico per quanto riguarda i social, non soltanto per l’utilizzo dei minori, ma anche per tantissime altre cose. Da sempre i media tradizionali hanno questi limiti, da sempre la tutela dei minori fa parte dei limiti dei media tradizionali. È giusto che questa conversazione, che queste regole si estendano anche al mondo digitale. Siamo un po’ in ritardo, forse siamo un po’ ancora nel Far West.

Alessia: Sempre sul discorso di normalizzazione, uno dei personaggi che forse ha cercato maggiormente di fare una sorta di normal washing, se così si può dire, sulla sua persona e sulla sua coppia, probabilmente è Meghan Markle con il principe Harry.

Gaia: Scusami, già rido perché sai che è un argomento che ho trattato ampiamente sul mio profilo.

Alessia: Lo so.

Gaia: Bella carica.

Alessia: Appunto, Meghan Markle che con il Principe Harry e la grande fuga da Londra, la Megxit, con questo sogno forse realizzato, forse no, chi può dirlo, di questa casa in campagna con i polli, gli animali, due figli, in California, lontano da tutto e tutti.

Gaia: I piedi scalzi.

Alessia: Esatto! Però, allo stesso tempo, sono perennemente presenti, non tanto sui social media perché lì hanno fatto comunque una scelta di essere poco presenti, però tra l’autobiografia del principe Harry, i podcast e le interviste rilasciate, sembra che in fondo anche loro in realtà non hanno tanta voglia di essere delle persone normali. Tu come la vedi?

Gaia: No, allora, adesso spezzo una lancia a favore della reale coppia. Un po’ come dicevo prima per la Ferragni e Fedez, loro non hanno detto “Vogliamo sparire nel dimenticatoio”, loro hanno detto “Vogliamo metterci in controllo della nostra narrazione”, perché sappiamo benissimo che quando fai parte della Royal Family tu non sei in controllo della tua narrazione. È una vita che ha dei pro e ha dei contro, nel loro caso aveva più contro che pro e hanno preferito fare questa scelta. Scelta che poi bisogna vedere se pagherà o meno, perché a livello di feedback dell’opinione pubblica in questo momento il loro grado di notorietà è molto alto, ma il loro grado di apprezzamento sembrerebbe che stia invece peggiorando, per assurdo. Quindi forse non essere in controllo della tua narrazione a volte è meglio. No, scherzo.
Sì, sicuramente Meghan è la campionessa del normal washing, ma Meghan in generale, io ne avevo parlato a lungo sul mio profilo, è una figura che mi affascina, che mi piace analizzare. Mi baso solo su come lei si è raccontata, quindi attraverso questi elementi ufficiali che tu hai citato. Lei vende un’idea di sé stessa che è palesemente idealizzata e che palesemente non è credibile, non è possibile. Vuole apparire il più possibile downturned, appunto con questi pedi scalzi, il turbante della doccia in testa, che persino io prima di venire qui a fare questo podcast una truccata e una pettinata, me la sono data. Lei no, lei su Netflix fa il documentario della vita e lo fa con capelli bagnati. Siamo scemi fino a un certo punto. La scelta dei due è una scelta che poi vedremo se nel tempo pagherà. Al momento secondo me è molto figlia di quest’epoca ed è molto figlia di quello che in questo momento tira negli Stati Uniti. Credo che Meghan ci appaia come un fenomeno così bizzarro, perché è un fenomeno molto americano, molto poco europeo.

Tommaso: È stata una puntata bellissima. Grazie ancora Gaia.

Gaia: Grazie a voi.

Tommaso: Però non possiamo chiuderla questa puntata senza una tipica domanda che facciamo ogni volta, che è: dicci una cosa al volo. Davvero, la prima cosa che ti viene in mente.

Gaia: La prima cosa che viene in mente è che non ho mai premuto quel pulsante. Ho vinto un premio?

Alessia: No, però lo puoi premere.

Gaia: Posso levarmi lo sfizio.

SUONO DEL BUZZER NIC

Alessia: Grazie mille Gaia.

Gaia: Grazie a voi davvero, dell’invito e della chiacchierata. Mi ha fatto tanto piacere.

 

Grazie di essere stati con noi Una Cosa Al Volo è una produzione TEAM LEWIS con il coordinamento editoriale di Maria Pia e le voci di Alessia e Tommaso. 

Contattaci