Skip to main content
LEWIS

Di

TEAM LEWIS

Pubblicato il

Luglio 27, 2023

Tag

Nel sesto e ultimo episodio di Una Cosa Al Volo, parliamo con Pietro Alcaro, Mattia Marangon e Samuele Rovituso, alias Legolize, di meme, di comunicazione corporate e di personal branding.


Ascolta il 6 episodio

Legolize – Pietro Alcaro, Mattia Marangon, Samuele Rovituso

Legolize è il media brand che porta divertimento e leggerezza nella vita delle persone, con una community da oltre 2.5 milioni di persone.

Una Cosa Al Volo S01E06 - Pietro Alcaro, Mattia Marangon e Samuele Rovituso alias Legolize

•·················•·················•

Alessia: Nuova puntata di Una Cosa Al Volo con non uno, non due, bensì tre ospiti d’eccezione. Infatti, sono con noi Mattia Marangon, Samuele Rovituso e Pietro Alcaro, che in realtà magari molti di voi conosceranno sotto un nome un po’ diverso, che corrisponde a Legolize. Ciao ragazzi!

Pietro, Mattia e Samuele: Ciao, grazie per l’invito.

Alessia: Allora, entriamo subito un po’ nel vivo. Voi siete i tre founder di Legolize che è una community, possiamo definirla così, molto particolare. È un progetto anche di comunicazione a modo suo, che è esploso soprattutto negli ultimi anni e che ha come protagonisti i Lego. Prima domanda molto banale, però mi sono sempre chiesta: perché proprio i Lego?

Mattia: Il progetto, facendo un passo indietro, nasce nel 2016. Infatti a maggio compiremo sette anni, siamo da un sacco di tempo online. Il progetto nasce, romanzandolo un po’, con una sorta di esigenza di raccontare e condividere contenuti umoristici, intrattenere le persone online, però facendolo in maniera abbastanza unica.
Abbiamo utilizzato l’omino Lego come mezzo di comunicazione e facciamo “parlare” questi omini Lego per creare delle vignette, dei contenuti umoristici nei quali parlano tra di loro e alla fine fanno una battuta, un gioco di parole. Un po’ alla volta, negli ultimi mesi e negli ultimi anni, veicolano anche certi messaggi che possono essere magari di satira su tematiche un po’ più di attualità, oppure parlano di certi temi su cui c’è ancora poca attenzione, il tutto mantenendo il nostro stile umoristico con un taglio irriverente, che è il nostro modo di comunicare.

Pietro: Ma perché il Lego proprio? Non hai risposto alla domanda.

Mattia: In realtà ho risposto in maniera trasversale. Il Lego è un po’ l’elemento che ci rende unici, nel senso che il Lego è anche una sorta di metafora per raccontare due persone che parlano tra di loro. Due omini Lego capisci subito che sono due persone, metaforicamente parlando. In più, il Lego è conosciuto da tutti, sia da tuo nonno che da un bambino di tre anni, quindi è molto immediato. E soprattutto quando scorri il feed, che sia Instagram, LinkedIn o quello che è, ha quello stopping power, per usare un inglesismo, che ti fa bloccare sulla vignetta, anche grazie a colori molto vivaci, e ti fa dire “Ok, vediamo cosa succede all’interno di questo contenuto”, quindi è un modo per comunicare in maniera molto forte e impattante i nostri contenuti.

Alessia: Tra l’altro c’è una cosa che a me piace delle vostre vignette: le battute sono molto sagaci e cozzano totalmente con quella che poi è l’espressività dei Lego in sé. A me piace un sacco questo contrasto che è molto stridente. Queste faccine sorridenti che dicono poi delle cose estremamente dissacranti molte volte.

Mattia: Mi piace l’aggettivo sagace.

Pietro: Che non conoscevo.

Mattia: Lo sta imparando oggi Pietro. Diciamo che le nostre vignette hanno due layer. Il primo layer è proprio la battuta, quindi il gioco di parole o la situazione comica. Il secondo è questo zoom sulla faccia: viene detta magari la ca*ata più grande del mondo e l’omino rimane fermo, sorridente, impassibile a guardare il vuoto, quindi dici “Chissà a cosa starà pensando”. In qualche modo ti ci rivedi anche in questo silenzio che traspare dal suo sorriso. Questo contrasto tra la battuta e quel sorriso quasi serio, ché rimane così a guardare l’orizzonte, fa ridere anche per quello.

Tommaso: Avete appena detto che siete nati come una community o comunque che siete una community. Dall’inizio avete sempre puntato molto forte sul singolo utente, sul consumatore. Nel corso degli anni la vostra comunicazione un minimo è cambiata, giusto? Come può essere cambiata? Avete un approccio più aziendale, più corporate?

Pietro: Inizialmente eravamo solo su Facebook, siamo nati come una semplice pagina di vignette. Abbiamo anche un gruppo Facebook con 40.000 membri, dove gli utenti potevano postare le loro vignette e le migliori andavano in pagina. Quindi c’è anche questo rapporto quasi diretto con il pubblico, con i fan. Con il passare degli anni ci siamo espansi su Instagram e su tutti gli altri social, su TikTok, su LinkedIn… Quindi la comunicazione un po’ è cambiata. Ogni social ha una comunicazione un po’ diversa, però i nostri utenti sono sempre al centro del progetto, infatti cerchiamo sempre di rispondere quasi a tutti i direct che ci arrivano. Non è sempre possibile, però proviamo a farlo.

Mattia: Il discorso della community è un po’ una costante in quasi tutti i progetti che comunicano online. Se pensi anche a pagine di informazione o pagine che parlano di un certo tema, avere una community è un po’ la base, perché se hai una community hai delle persone alle quali comunicare i tuoi contenuti. Per le comunicazioni che sono state, fino a questo momento, un po’ più istituzionali e che non comprendevano una community, era un po’ sparare nel nulla. Pubblichi il contenuto, ma chi è che lo vede? E soprattutto, si sente coinvolto in prima persona? Queste domande, in maniera più o meno involontaria, ce le siamo fatte noi all’inizio. Abbiamo detto “Ok, creare una community è fondamentale”. Dopo c’è stato lo switch per convertire questa community in un lavoro effettivo.
Per anni noi abbiamo lavorato creando contenuti “aggratis”, detta schiettamente, perché un po’ alla volta abbiamo portato persone all’interno della nostra community fino a diventare una delle più grandi in Italia. Successivamente, le aziende ci hanno visto, hanno visto il potenziale che c’è dietro al far pubblicare un post da noi e di conseguenza siamo riusciti ad avere questo switch commerciale. Tutt’ora noi stiamo portando avanti la comunicazione su due strade: c’è tutta la parte organica nella quale creiamo contenuti normali di intrattenimento, ma dall’altra parte integriamo questi contenuti organici con branded branded che facciamo con le aziende, sempre mantenendo il nostro stile, però per raccontare un servizio, un prodotto, un’azienda. Quindi abbiamo trovato un po’ un mix per non snaturarci, che è la cosa fondamentale quando lavori sui social, soprattutto se comunichi il tuo brand come in questo caso.

Alessia: Hai giustamente parlato di comunicazione aziendale, nel senso che anche le aziende si sono accorte del potenziale che c’era dietro Legolize e vi siete sempre più diretti verso quella parte della comunicazione, che è una comunicazione un pochino più business. Vista anche la vostra esperienza di lavoro e di collaborazioni con diversi brand, secondo voi come sta cambiando la comunicazione aziendale in Italia?

Samuele: Tanti brand stanno cercando di avere un tono un po’ più colloquiale, un po’ più umano con il pubblico. Sei anni fa, ad esempio, su LinkedIn ma anche su Instagram e su tutte le piattaforme social, si puntava un po’ più a quel tipo di comunicazione istituzionale in cui dici “Facciamo questo, facciamo quest’altro”. Col tempo anche le aziende si sono accorte che il contenuto alla fine deve essere di valore per l’utente e di conseguenza notiamo come molte più aziende cercano di fare contenuti, soprattutto su TikTok, che vadano un po’ a incuriosire la persona qualunque che per qualche motivo vede il contenuto. Sei anni fa beccavi solo l’azienda X che faceva il contenuto super serioso, adesso trovi aziende che fanno meme, pubblicano cose divertenti e cercano di essere un po’ più al passo con quello che è il vissuto di tutti i giorni.

Pietro: Secondo me, infatti, la svolta è stata proprio TikTok, ha cambiato un po’ il modo di comunicare di tutte le aziende.

Samuele: Sì, perché lì c’è molto più spazio per la creazione di un contenuto. Invece su Facebook, ad esempio, le aziende hanno iniziato a pubblicare contenuti branded e si poteva dire “Ok, abbiamo fatto questo e pubblichiamo l’articolo”, che non funzionava neanche ai tempi. Però su TikTok questa cosa va a mancare, perché è l’algoritmo che poi decide se un contenuto la gente lo vedrà o no.

Mattia: Secondo me, la differenza l’ha fatta effettivamente il fatto che le aziende hanno capito che i social sono social, nel senso che prima venivano presi come giornali. Se c’è un cambiamento nella tua azienda, lo comunichi sui social e lo fai in maniera molto seria, istituzionale, quasi noiosa. Gli utenti che sono sui social per cercare un certo tipo di contenuti, vedono questo post e dicono “Ma che me ne frega di vedere questo contenuto?”.
Anche da questa necessità degli utenti di cercare certi contenuti, le aziende hanno capito un po’ alla volta (come diceva a Pietro anche e soprattutto grazie a TiKTok, che negli ultimi anni ha fatto veramente un boost verso quella direzione) che su Facebook, Instagram e sulle altre piattaforme, per farti vedere devi pagare, perché se no a livello organico non raggiungi più persone, e l’unico modo per raggiungere più persone a livello organico è fare i contenuti che meritano davvero di essere visti. L’algoritmo di TikTok è una bomba, quindi molte aziende ormai già da un po’ di tempo stanno cominciando a muoversi per pubblicare contenuti che siano contenuti da TikTok, non il contenuto di “comunicazione aziendale”. Di conseguenza, un po’ alla volta, tutte le altre aziende stanno un po’ seguendo questa direzione, applicando certi parametri anche per tutte le altre piattaforme.
Adesso non vorrei prenderci i meriti, però noi siamo stati tra le prime realtà che su LinkedIn hanno portato un certo modo di comunicare, molto più leggero. Abbiamo fatto un po’ da pionieri e apripista per un certo stile di comunicazione. Un po’ alla volta vediamo che anche tante altre aziende stanno andando verso quella direzione. Noi siamo un po’ di parte, però speriamo che sempre più aziende seguano un questo modo di comunicare, perché alla fine tu puoi comunicare sempre la stessa cosa però, se fatta in un certo modo, anche intrattenendo, ha un impatto molto più forte. Soprattutto, io da utente sono molto più contento di vedere quel contenuto rispetto alla comunicazione seria alla quale siamo stati abituati fino a questo momento, che onestamente… Che me frega.

Alessia: Giustamente, tu hai detto che le aziende hanno capito che i social sono social. Al netto della questione dell’algoritmo e dei contenuti organici o a pagamento, quindi l’avere o meno quei budget di allocare, può essere che il cambio della comunicazione aziendale è legato al fatto che le aziende stanno capendo che si devono posizionare sempre più anche per la mission e i valori che hanno e che non devono vedere gli utenti come dei potenziali consumatori, o meglio non solo, ma soprattutto come membri di una community? E da qui, probabilmente, il perché si stiano affidando a delle realtà come la vostra che sono prima di tutto community che raccolgono persone interessate e che apprezzano un determinato modo di comunicare. Quindi, ancor prima di tutta la parte di algoritmo, c’è proprio la volontà di creare delle persone che si rivedono in quelli che sono i valori del brand?

Mattia: Sui social molto spesso i numeri la fanno da padrone, quindi le aziende, le realtà che vedono altre realtà competitor che fanno certi numeri, dicono “Ma perché loro sì e io no?” e “Ok, capiamo qual è la direzione giusta”. Alla fine capiscono che la community è alla base. Una realtà come la nostra o realtà come molte altre che sono partite direttamente sui social lavorando alla community, attualmente stanno in qualche modo dominando quello che è il mercato e l’attenzione sui social, mentre aziende che hanno sempre avuto una comunicazione molto più istituzionale stanno un po’ arrancando e dicono “Ok, perché loro ce la stanno facendo e noi no?”. Un po’ alla volta capiscono che seguendo certi modi di comunicare, magari con creator o con delle realtà come la nostra che permettono di raggiungere un pubblico sempre più grande, è la strada giusta per portare più attenzione sul loro brand, sui loro prodotti e servizi, convertire e soprattutto creare una community che ti puoi giocare in mille modi diversi, perché alla fine la community segue te. Tu decidi come e cosa comunicare, che può essere o un contenuto divertente dal nostro punto di vista, un contenuto brandizzato o mille altre cose.

Samuele: Personalmente, per come la vedo io, creare una community per un brand è anche un po’ un piano molto più sul lungo termine. C’è tanto sforzo, ma poi chi ha saputo farlo e chi continua a farlo attualmente, domina un po’ il mercato. Mi viene in mente Duolinguo su TikTok che ha milioni di follower, è super seguita. Magari all’inizio diceva “Perché devo mettermi a fare dei contenuti per fare follower, che poi magari non stanno lì per scaricare la mia app?”, vedendo cosa fanno altri concorrenti che puntano tutto su un guadagno nel breve termine, quindi l’adv che deve convertire X. Però, dopo due anni che fai adv continuando a pagare, non hai nulla di tuo in mano, non hai del pubblico che continua a seguire quello che fai. Quando smetti di pagare la piattaforma per farti pubblicità, lì finisce tutto. Se invece hai una community, questo non accade.

Alessia: È vero, hai la capacità di creare una traccia e fare in modo che quante più persone si rivedano e quindi siano più incentivate anche a seguirti e, idealmente, a convertire quel follow in acquisti.
Parlavamo delle vostre esperienze con quelle aziende che si sono avvicinate maggiormente a voi e a questo modo di comunicare, soprattutto negli ultimi anni. Senza scendere proprio nel fare nomi e cognomi, come direbbe qualcuno, un esempio che vi viene in mente di una collaborazione che si è rivelata molto proficua? Non parlo in termini economici, ma proprio dove c’è stato uno scambio utile e l’azienda si è affidata nel modo giusto a voi. E invece una situazione nella quale la collaborazione è stata proprio pessima?

Mattia: Io ho in mente proprio la situazione standard nella quale una collaborazione funziona e una situazione nella quale non funziona. Dipende da quanto l’azienda si fida di noi, quanto ci lascia fare effettivamente quello che è il nostro lavoro. Noi creiamo contenuti tutti i giorni, conosciamo le persone che ci seguono e conosciamo cosa gli piace. Di conseguenza, se un’azienda viene metaforicamente parlando a casa mia a dire “Tu devi fare così”, sai già che quella cosa non funziona. E ci sono alcune aziende, spesso quelle che ti pagano meno, che ti danno più ordini, penso che sia una cosa un po’ comune nel settore. Quelle che ti dicono cosa fare è perché hanno un certo modo di vedere, che però non è basato su dei fatti o sull’esperienza, ma sul “Secondo me è meglio così”, “Io la mia azienda voglio comunicarla così”. Però se tu vai da un creator o da influencer e imponi le tue regole o il tuo modo di comunicare, sai che quella cosa non funziona perché si discosta completamente da quello che è il modo di comunicare del creator in questione.
Di conseguenza, le collaborazioni che sono andate bene, rimanendo molto generico, sono quelle in cui un’azienda viene da noi e ci dice “Avete carta bianca. Al netto del budget, al netto dei contenuti, a livello di creatività potete un po’ fare quello che volete. Dovete comunicare questo, perché è l’unica richiesta che vi facciamo, per il resto gestitevela voi. Volete fare un video, un carosello o quello che è? Seguite voi la strada che ritenete migliore”.
D’altra parte, l’azienda che dice “No, io voglio fare questa cosa comunicando questo argomento” sai che non interessa alle persone. Se parli di un prodotto che è super specifico e di nicchia al nostro pubblico, che è un po’ più ad ampio respiro, sai che difficilmente quella cosa ti può convertire nel breve termine. Molte aziende non lo capiscono e a volte non va propriamente come si aspettano loro. Però questo è inevitabile.

Tommaso: Con quali tipologie di aziende collaborate? Sono aziende più vicine ai consumatori o anche aziende che comunicano al mondo business?

Samuele: Dipende. Siccome noi siamo omnichannel come piattaforme che presidiamo, dipende un po’ dalle piattaforme. Su LinkedIn ci sono molte più aziende che vogliono comunicare il B2B, su Instagram molte meno, quasi tutte sono B2C. Però, avendo un pubblico molto ampio e molto disparato, le tipologie di aziende che collaborano con noi sono varie, dalle banche a chi vende panini, dal servizio più complesso a quello più semplice.

Alessia: Vedendola dall’altra prospettiva, ci sono delle aziende con le quali avete un po’ di dubbi a collaborare? Mi spiego meglio. Ci sono delle aziende che per tipologia o perché si occupano di una certa tematica o comunque delle aziende con le quali non vi rivedete nella loro scala valoriale e quindi preferite proprio non collaborare? Vi è mai capitato? O idealmente ci sono appunto delle tipologie con le quali voi come Legolize non collaborerete mai?

Pietro: Sicuramente questi settori un po’ borderline, come tabacco, armi… Armi non è mai capitato, ma questi settori un po’ al limite cerchiamo sempre di evitarli.

Mattia: In realtà io non ho neanche ricordi che un’azienda del genere sia mai venuta da noi.

Pietro: Ma sì, che vende armi no, però magari lì al limite. Fuffa guru, quelle cose così.

Mattia: Sì, esatto, nel senso che magari qualcuno capita, però mediamente è veramente di rado. Molto spesso l’azienda che viene da noi è perché già in qualche modo ci sono dei valori condivisi, soprattutto adesso che siamo comunque molto grandi e molto visibili, è veramente difficile che venga l’azienda di turno che vende armi a dirci “Facciamo la campagna insieme”. È molto più facile che venga l’azienda che vuole posizionarsi in un certo modo, quindi azienda anche abbastanza grande e di un certo tipo, affermata a livello di nome, che vuole unire il proprio brand con il nostro e comunicare a tante persone. In quel caso è molto più facile che un’azienda che condivide anche dei valori venga da noi e lo stesso noi, cerchiamo aziende che condividono questi valori.
Per esempio, più volte ci capita di scorrere TikTok: vediamo un’azienda che ha fatto una collaborazione di un certo tipo, magari divertente, comica e tutto quanto, e quindi diciamo “Quest’azienda potrebbe tranquillamente lavorare insieme a noi perché condividiamo questo modo di comunicare”. È un matrimonio che molto spesso funziona in maniera naturale. Invece, se viene il fuffa guru di turno a dire “Non è che mi sponsorizzate il mio corso a Dubai?” diciamo “No, grazie”.

Alessia: E invece, rispetto a quanto detto prima, ci sono dei temi che voi sentite particolarmente vicini e quindi avete particolare piacere a collaborare con delle aziende affini? Faccio un esempio abbastanza classico: ho visto che, su LinkedIn soprattutto, spesso state toccando il tema della salute mentale, sul posto di lavoro in particolar modo. Quindi immagino che anche in quel caso ci siano delle collaborazioni in atto.

Mattia: Da questo punto di vista, in realtà, è proprio una piega comunicativa che stiamo cercando di dare già da un po’ di mesi al nostro progetto, soprattutto alla luce dei numeri che generiamo con ogni contenuto che pubblichiamo. Sappiamo la responsabilità che abbiamo e soprattutto l’impatto che possiamo generare con i nostri contenuti. Di conseguenza, non per forza, non collaboriamo con le aziende per fare questo tipo di contenuti e li pubblichiamo organicamente, magari in collaborazione con altre pagine o altri progetti che parlano più nello specifico di questi temi, sia su LinkedIn che su Instagram.
Ovviamente il nostro core rimane sempre far ridere, però ogni tanto questa cosa si può declinare verso certi argomenti, magari strappando una risata amara e condannando certe situazioni sul luogo di lavoro, ma parlando anche di sostenibilità, di inclusività. Tutti temi che comunque su LinkedIn sono centrali e anche portandoli su Instagram vediamo che l’interesse è molto alto. Percepisco che la gente ha bisogno di sentire parlare di certe tematiche, poi si creano anche delle discussioni nei commenti, è una cosa che funziona e interessa le persone. Soprattutto, noi abbiamo tutto questo potere tra le mani e se riusciamo a veicolarlo verso una certa direzione, è sicuramente una cosa positiva per l’ecosistema digitale.

Tommaso: Parlando proprio di ironia che come hai detto te è il vostro core, entrando un po’ in questa tematica nello specifico, possiamo dire essere un'”ironic selling proposition”, voi utilizzate i meme, però con i meme si può effettivamente parlare di tutto? Un po’ come uno spettacolo comico dove trattano dal black huumor alla qualsiasi. Si può effettivamente parlare di tutto? Vi è mai capitato qualcosa che avete preferito evitare?

Mattia: Ci sono sicuramente certi temi che in qualsiasi modo tu li tratti, rischi di prenderli non voglio dire con superficialità, perché non è la parola giusta, però magari non dargli la giusta importanza. Se non abbiamo niente di brillante da aggiungere, preferiamo non pubblicare niente. Molto spesso vediamo contenuti o content creator che parlano certi di temi solamente per parlarne, senza dare veramente un valore aggiunto. Noi preferiamo parlare di altro, non possiamo parlare di tutte le cose esistenti.
Dall’altra parte, all’interno dei nostri contenuti editoriali creati e pubblicati da noi, molto spesso si riesce a trovare una chiave per affrontare i vari temi, che sia per parlare degli affitti alti a Milano o di inclusività, di sostenibilità. Tutte tematiche che a prima vista sono un po’ delicate, però vanno prese con la giusta dose di serietà, magari strappando una risata che non è proprio una risata a crepapelle, è una risata un po’ amara. A volte non è che proprio ti sganasci dalle risate… Dici “Ok, questa cosa fa ridere, ma anche riflettere”, per usare una citazione.
Molto spesso magari il nostro contenuto è un po’ un modo per attirare l’attenzione, la parte più di spiegazione la mettiamo nella parte testuale esterna che ha più spazio. Lì non c’è la necessità di essere veloci a livello di scambio di battute, quindi possiamo approfondire certi argomenti che richiedono serietà. Il meme è un po’ un modo per rompere il ghiaccio sul tema e dopo approfondirlo nella parte testuale fuori. È un format che funziona molto bene e già da un po’ di mesi lo stiamo sperimentando, a volte in collaborazione con altri creator, a volte con aziende che ci chiedono di parlare di certi temi. Ma molto spesso ci teniamo a parlare di alcuni argomenti ed è una cosa che funziona molto bene come dicevo prima, è sicuramente una strada che vogliamo continuare a seguire anche nei mesi successivi.

Pietro: Gli unici temi di cui preferiamo non parlare, sono quelli che generano delle divisioni nel pubblico, tipo la politica o il calcio. Non si sa perché, ma in Italia non puoi parlare di calcio, finisci sempre male. Questi temi preferiamo non trattarli proprio.

Samuele: Sì, se è un tema sociale funziona molto bene, se è un tema divisivo è difficile parlarne. Ad esempio, puoi parlare di calcio se gioca la nazionale e tutti sono uniti. Puoi parlare della politica in circostaze come, per esempio, quando i politici sono sbarcati su TikTok, era un evento divertente, molto generale, in cui non prendevi posizione su un partito perché l’avevano fatto tutti, si può fare. Prendere posizione su un partito piuttosto che l’altro ha poco senso nel nostro caso, che non prendiamo posizioni e non ci esprimiamo su una determinata ideologia.

Mattia: Per chiudere un attimo il discorso, per esempio, quando c’è qualche avvenimento nazionale di cronaca nera e dici “Qua cosa ci puoi aggiungere?”. Nel senso, andrebbe a sminuire tutta la faccenda. Quindi preferiamo dire “Non non rientra nel nostro modo di comunicare” e passare oltre per parlare di altre tematiche.

Samuele: Non ci sentiamo obbligati a cavalcare l’onda se non ce n’è bisogno. Se abbiamo un’idea sull’argomento si fa il contenuto, ma non il contrario. Non è che se un contenuto è in tendenza bisogna per forza di cose tirar fuori il contenuto virale perché se ne sta parlando. Se non abbiamo nulla da dire, nulla da aggiungere a quel tema, amen. Non ci sentiamo obbligati di toccarlo per forza.

Alessia: Giustamente, dicevate temi legati alla politica no. Però politica in realtà è un grandissimo ombrello che comprende anche quelle che sono tutte le grandi battaglie sociali per i diritti. Ecco, anche su quello vi sentite di non voler aggiungere nulla? Ve lo dico soprattutto dal punto di vista di creator, perché penso forse l’ultima grande battaglia sui social è stata quella per il DDL Zan, dove tantissimi creator hanno preso posizione, anche tanti media e tante aziende. Ecco, in una situazione di questo tipo non so se avete preso posizione e nel caso se vi potevate sentire confident o meno, se rientrava in uno di quegli ambiti per i quali giustamente ci dicevate prima “No, lì non vogliamo aggiungere nulla”.

Mattia: Come politica noi intendiamo fare la vignetta durante la campagna elettorale di turno. Noi non facciamo la battuta sul politico del momento che ha detto una cosa X, perché ovviamente dai visibilità a un partito piuttosto che un altro e non rientra nelle nostre corde. Dall’altra parte, parlare di temi sociali è una cosa che all’epoca non avevamo ancora fatto…

Pietro: No, avevamo fatto un post.

Samuele: Non parliamo di DDL Zan nella vignetta, ma del tema più generale.

Mattia: Esattamente, non parli della situazione nello specifico, ma dei temi sociali. Come dicevo prima, per tutte le tematiche di inclusività, eccetera, cerchiamo di dare più visibilità possibile sui nostri canali.

Alessia: Giusto una curiosità. Come dicevamo all’inizio, Legolize è un progetto che quest’anno compie sette anni. Immagino che ci sia anche una sorta di maturità che viene chiaramente con gli anni. Non lo so, ipotizziamo che sia così.

Mattia: Mai vista io.

Alessia: Ma c’è una vignetta o una battuta, magari che avete fatto all’inizio e che vedendola con gli occhi di oggi, di persone che hanno sette anni in più di esperienza, dite “No, forse questa ce la potevamo anche evitare”?

Pietro: Ce ne sono troppe.

Mattia: No, non è vero. Le vediamo e diciamo “Vabbè, eravamo ragazzi”.

Alessia: A proposito dell’ironia e della della costruzione dei vostri meme. Come nasce il processo creativo? Come si sviluppa? Chi è la mente un pochino più sul pezzo a livello di ironia?

Pietro: La parte creativa la facciamo tutti e tre, abbiamo un gruppo WhatsApp in cui ci mandiamo le varie vignette. Abbiamo tutti e tre una soft box, che sarebbe un mini studio con delle luci e cartoncini colorati dietro. Facciamo le vignette e le mandiamo lì. Quelle belle le teniamo e le programmiamo, quelle brutte le scartiamo, e in genere sono le sue. *indica Mattia*

Mattia: È la battuta che faccio io dicendo che sono sue. *indica Pietro*

Pietro: Era il mio turno, toccava a me farlo.

Mattia: Diciamo che c’è un processo condiviso, nel senso che ognuno è abbastanza indipendente per tutta la parte di scrittura del testo per lo script, sia la parte di foto e di editing. Dopo c’è il processo di approvazione nel quale diciamo “Cambia questo testo” o “Cambia questa questa foto”. Ovviamente nel corso del tempo abbiamo capito effettivamente come devono essere i testi: molto rapidi, molto veloci. Magari ci sono alcune parole da girare o da cambiare, perché per farle funzionare deve seguire certi standard. Questo per la parte di contenuti normali.
C’è poi la parte di contenuti branded che facciamo per le aziende. In quel caso siamo tutti insieme da un livello di complessità un po’ più alto: partiamo da un brief e per svilupparlo ci sentiamo tutti quanti. Poi andiamo a sviluppare la creatività in base a quello che ci chiede l’azienda. Però siamo più o meno tutti indipendenti. Pietro non fa una foto dal 2004.

Pietro: Mi dissocio, non è vero.

Mattia: Mediamente facciamo un po’ tutti tutto quanto, diciamo così.

Alessia: Ma allora, se si può dire…

MATTIA SUONA IL BUZZER NIC

Pietro: Già se inizia così è una cosa che non si può dire.

Alessia: No, si può dire. Qual è stata secondo voi la vignetta o comunque quel momento che potremmo un po’ definire turning point per Legolize? Quella vignetta che vi ha fatto veramente esplodere e farvi conoscere in quel momento?

Pietro: Secondo me più che una singola vignetta è stato proprio un momento, quello della pandemia, che è stato un po’ la nostra svolta.

Mattia: Io ho la risposta bella. Mi piace raccontare questa cosa qua: il progetto era nato da tre mesi e quindi stavamo sperimentando un po’ di format, un po’ di contenuti. Mi ricordo che mi ero rinchiuso una settimana a lavorare a un progetto, un contenuto che era letteralmente l’intero film di Tre uomini e una gamba di Aldo, Giovanni e Giacomo. L’ho trasformato in una storia fatta con i Lego. All’epoca pubblicavamo principalmente su Facebook. Erano più di 70 immagini una dopo l’altra, quindi gli utenti dovevano scorrere e vedere tutta la storia. Avevamo fatto gli screen a tutte le scene di Tre uomini e una gamba sostituendo i personaggi veri con i Lego, con i nostri personaggi, cambiando un po’ la storia e un po’ di ca*ate, se si può dire. Questa cosa l’abbiamo pubblicata ed è andata talmente tanto bene che ha fatto decine di migliaia di like, decine di migliaia di condivisioni ed è arrivata fino ad Aldo, Giovanni e Giacomo. Loro l’hanno condivisa sul proprio profilo, anche se non mi ricordo bene come di preciso, o quello che hanno scritto, ma ci hanno fatto i complimenti, hanno apprezzando il contenuto, condividendolo. Questa cosa non tanto ci ha fatto svoltare a livello di numeri, ma a livello di consapevolezza, nel senso che abbiamo visto che quello che stavamo facendo poteva raggiungere tante persone, anche persone che normalmente sono inarrivabili. Tu crei un contenuto, ma non pensi che te lo vedano i signori Aldo, Giovanni e Giacomo. Quindi effettivamente abbiamo visto che avevamo del potenziale tra le mani e ci ha dato molti stimoli, molto entusiasmo per continuare a pubblicare i contenuti.
È stato all’inizio, però è stato un po’ quella la chiave di svolta iniziale. Il progetto nasce per gioco oggettivamente e non avevamo grandissime ambizioni: volevamo crescere il più possibile, volevamo fare più numeri possibili, però non c’era ancora l’idea di trasformarlo in un lavoro. Però c’è stata un po’ la consapevolezza di dire “Ok, questa cosa ha le potenzialità per diventare veramente grande”. Dopo vai anche col discorso della pandemia…

Pietro: La pandemia è stato la vera svolta dal punto di vista dei numeri, perché in quel periodo la gente è stata chiusa in casa per tre mesi. Mi ricordo che abbiamo anche fatto una rubrica sulle nostre stories in cui ogni giorno facevamo un gioco interattivo diverso con gli utenti. In quel periodo siamo cresciuti tantissimo anche dal punto di vista commerciale, siamo cresciuti veramente tanto in quei due mesi.

Mattia: Era Legolize Quarantena. Ogni giorno facevamo un’attività più o meno intelligente.

Pietro: Veramente poco intelligente, secondo me.

Samuele: È un format di cui ci siamo pentiti tra l’altro, perché l’abbiamo proposto all’inizio quando si pensava “Due settimane chiusi e poi si ritorna tutti quanti a fare la bella vita”. E quindi abbiamo detto “Fino a che non finisce la pandemia, ogni giorno proponiamo un nuovo format”.

Pietro: È durato 40 giorni. Eravamo pieni.

Samuele: Ovviamente, dopo due settimane si vociferava che non finiva lì e noi eravamo tipo “Raga, dobbiamo trovare un modo per chiudere qui la situazione perché come l’abbiamo impostata non funziona”.

Pietro: Io, tra l’altro, durante questi giorni ho rotto il muro di casa mia per questa piccola sfida. Abbiamo attaccato l’immagine di Wugo, il nostro personaggio cattivo, su un bersaglio e dovevo fare centro da una distanza sempre più lontana. L’ultimo livello saranno stati 15 metri e c’era questo bersaglio attaccato al muro del mio balcone. Con queste freccette sono stato 3 ore a tirare, tipo dalle quattro alle otto e il mio muro è ancora ora pieno di buchi. Mia mamma mi ha ucciso quel giorno, però va beh.

Mattia: Però per il content questo ed altro.

Pietro: 4 ore, davvero. Ho iniziato che erano le tre e mezza o quattro e ho finito alle otto e mezza di sera. È stato uno shock, un trauma.

Mattia: Quindi alla fine abbiamo chiuso ai 40 giorni, abbiamo detto “Quarantena, 40 giorni”, anche se non è propriamente così. Però 40 giorni e devo dire che, come dice Pietro, sicuramente questa cosa ci ha aiutato a raggiungere ancora di più le persone che in quel momento erano a casa a non far nulla come tutti noi, solo che noi ci siamo messi a lanciare freccette. Invece le persone vedevano i nostri contenuti, li apprezzavano e abbiamo avuto molti feedback di persone che ci dicevano “Grazie per quello che state facendo, state intrattenendo le nostre giornate”. Questi contenuti non erano presi e buttati su Internet, erano contenuti interattivi, quindi c’era un sondaggio, c’era il box domande, l’interazione. Quindi le persone, per quanto possibile, partecipavano in prima persona a questo tipo di attività. Nel nostro piccolo, anche noi siamo riusciti a intrattenere le persone in quel periodo, che era veramente pieno di dubbi, perplessità e anche difficoltà. È stata una cosa sicuramente positiva sia per noi, sia per le persone che vedevano quello che facevamo.

Tommaso: Uscendo un po’ dalla schiera Legolize, sempre lato creatività e comunicazione. Sappiamo che voi tate andando molto bene anche con i vostri profili personali LinkedIn, proprio come content creator. C’è qualcosa sempre legato a Legolize? Come comunicate?

Mattia: Quello che facciamo sui nostri profili personali è un po’ la continuazione e anzi una sorta di spin off, per dirla in modalità serie tv, di quello che è il progetto principale. Per anni abbiamo pubblicato contenuti su Legolize, però è mancata un po’ quella parte più personale. Nel senso che l’influencer di turno pubblica un contenuto, tu vedi la sua faccia, vedi la sua vita, eccetera. Dall’altra parte noi, essendo dei creator e “nascondendoci” dietro le vignette di Legolize, non si è mai visto niente della realtà che c’è dietro e quindi non sapevi neanche chi ci fosse dietro. Magari eravamo un progetto del governo fatto apposta per intrattenere le masse, non lo so. In realtà, pubblicando un po’ la volta, esponendoci in prima persona anche partecipando a eventi e attività offline, conoscendo anche persone del settore, abbiamo fatto vedere sempre di più la nostra presenza come persone e liberi professionisti, se così possiamo definire. “Tanto liberi, poco professionisti” per fare una grande citazione.
Ormai è da un paio d’anni che pubblichiamo contenuti in maniera più o meno costante e siamo riusciti a dare un po’ più di profondità al progetto, raccontando aneddoti di cose che sono successe all’interno di Legolize. Anche i casi studio sono stati un ottimo modo per trovare nuovi clienti banalmente, perché racconti di casi studio di successo fatti con azienda X e le altre aziende pensano “Però, figata, facciamo qualcos’altro insieme”. Da lì, un po’ alla volta, ci siamo evoluti anche parlando di altre tematiche. Adesso parliamo anche di marketing, di temi che ci interessano e che ci appassionano, sempre mantenendo il taglio irriverente e l’identità visiva di Legolize, elemento costante in tutto ciò che facciamo, dando un po’ più di profondità e anche di più ampio respiro al progetto. Fà vedere che non ci sono solamente delle persone che fanno ridere, ma anche delle persone che trattano di certi temi e affrontano certe tematiche, che sicuramente ti va dare più spessore al progetto stesso.

Alessia: Ma io vorrei capire, quanto si rimorchia nel dire che siete founder di Legolize?

Samuele: La domanda passa a Pietro Alcaro.

Mattia: Nell’ultima settimana, quanto?

Pietro: No, ma non è vero… È solo un luogo comune che non è palesemente vero. È capitato qualche volta…

Mattia: Secondo voi, con questa collana Pietro non rimorchia?

Alessia: Parlando invece di personal branding, soprattutto nell’ultimo periodo siete particolarmente esposti in prima persona. Ci state mettendo la faccia soprattutto, su LinkedIn. È forse sintomo di quella che è una naturale evoluzione che ha preso LinkedIn? Ricordo che un paio di settimane fa è uscito un articolo che spiegava proprio come LinkedIn stia cambiando pelle, cioè da che era un luogo dove la gente cercava lavoro e si cercava di dare la più professionale delle proprie immagini, oggi è un luogo dove sempre più si cerca di entrare in connessione con l’altro e creare tutta una narrativa intorno alla propria storia personale e lavorativa. Ecco, quanto conta il personal branding per chi si avvicina al mondo di LinkedIn, ma non solo?

Mattia: Guarda, quello che è il cambiamento era un po’ quello che dicevamo anche prima: il fatto che si sia capito che effettivamente LinkedIn non è solo il posto dove trovare lavoro, ma è un social network. Pubblicare contenuti è un po’ una naturale evoluzione della piattaforma stessa. Tu, pubblicando contenuti, raggiungi molte più persone rispetto a non pubblicando banalmente, perché fai vedere la tua esistenza, ti fai vedere, fai vedere chi sei e la tua professionalità. In questo modo puoi raggiungere organicamente molte più persone e di conseguenza avere anche più possibilità lavorative e professionali di qualsiasi tipo.
Questa naturale tendenza verso il fatto di esporsi un po’ di più e lavorare anche per un personal brand è quasi necessario al giorno d’oggi, soprattutto in certi settori, per sopravvivere. Però dall’altra parte o sei un professionista della Madonna, oppure è difficile che l’azienda scelga te rispetto ad altri. Pubblicare in prima persona, far vedere la propria personalità e la propria professionalità è un modo per acquisire potenziali clienti, collaboratori, fornitori o quello che vuoi, in maniera molto naturale, organica e senza particolare sforzo. Perché tu pubblichi, raggiungi 10.000, 100.000, 1.000.000 di persone e loro in maniera naturale vengono a te, non devi andare di volta in volta dalle aziende.
Ed è effettivamente quello che facciamo con Legolize, oltre che a livello personale. Comunicare a tante persone facendo una campagna X, altre aziende vedono che la facciamo e di conseguenza sono loro che vengono da noi. Questa cosa avvantaggia tantissimo tutti i processi commerciali. Come dicevamo prima, il discorso di condividere i valori: tu li condividi e vedi effettivamente quello che siamo, se tu vedi il nostro post sai già con aspettarti da noi. Ci tagliamo tutta quella parte di aziende che hanno un modo di comunicare diverso.

Alessia: Dal punto di vista proprio prettamente strategico, chi ha voglia di iniziare a costruire appunto il proprio personal branding, quali sono un paio di regole secondo voi fondamentali che dovrebbe seguire? Parlo da utente di LinkedIn: mi ricordo che c’è stato un periodo in cui determinati professionisti del marketing dicevano che per crescere in modo organico e continuativo e raggiungere grandissimi numeri bisognava pubblicare ogni giorno un contenuto. A parte che vorrei capire anche che tipo di vita particolarmente attiva possa avere uno ad avere ogni giorno un contenuto da postare. Ma al netto di questo, quale può essere invece magari un buon balance, un buon equilibrio per costruire appunto un personal branding che sia efficace?

Mattia: Io ho un suggerimento, dopo lascio parlare loro. Non copiare, non prendere i contenuti di altre persone e ripubblicarli sul proprio profilo cambiando due parole. Quella è la fine, soprattutto nell’ambito professionale, se vieni sgamato che stai copiando le cose di altre persone. Qualsiasi tipo di creatività, di idea o di concetto bisogna prenderlo e riadattarlo a quello che è il proprio stile, i propri valori. Se si prendono e si copiano frasi, ti dico che è successo, è una cosa che purtroppo ti scredita. Soprattutto quando sei un professionista, ti rovini un po’ la reputazione dopo aver impiegato anni a costruirtela, letteralmente con tre post, te la rovini completamente. Questo è il consiglio che posso dare.

Samuele: Ed è una cosa che su LinkedIn succede molto, molto spesso. Più che sugli altri social.

Mattia: È che su LinkedIn ti posizioni come professionista, quindi non vai a perdere solamente la faccia in generale, ma proprio la faccia a livello lavorativo. Quindi quella cosa se sei un freelance o un’azienda è un bel danno.

Samuele: Sì, se copi un video su TikTok a un altro creator amen, c’è un po’ la disputa tra i due, però non sei un professionista. Se lo copi su LinkedIn dici “Ok, quindi tutto ciò che hai letto sono cose copiate in realtà, magari non sai niente”.

Alessia: Visto che Legolize è un progetto talmente particolare, immagino sia anche un po’ difficile da replicare e copiare. O invece no? Vi è mai capitato che qualcuno prendesse largamente ispirazione dal vostro lavoro e lo riutilizzasse?

Pietro: È capitato che molti profili, soprattutto su Instagram, prendono i nostri contenuti e li repostano sul proprio. Accade molto, molto, molto spesso questo.

Alessia: Negli ultimi anni si è un po’ assistito a un crollo totale di Facebook, ormai lo definiscono un po’ il social dei boomer; Twitter ha tutti i problemi che sappiamo, anche dovuti al nuovo proprietario probabilmente, non si sa. TikTok è l’innominabile; Instagram non ha rinnovato l’accordo con SIAE pare, quindi ci ha tolto anche la musica delle stories. Non è che forse resta solo LinkedIn nel futuro dei social?

Pietro: Non penso.

Samuele: Lato contenuto di intrattenimento, secondo me TikTok è quello che sta spingendo di più ed è il cavallo di battaglia nei prossimi anni. LinkedIn fortunatamente si è reinventato: se prima lo aprivo e c’era gente faceva vedere il curriculum e l’attestato preso, e uscivo subito dopo, adesso, con il fatto che ci sono content creator, c’è qualcosa di interessante quando scrollo, inizia a essere più piacevole. Instagram, a parte la musica che vediamo come va a finire, continua a essere piacevole per alcune cose. Poi altre magari le cambiano, tornano indietro sui propri passi, sono un po’ confusionari. Cosa che TikTok è meno, è più lineare nella sua evoluzione.
Secondo me di social buoni e di intrattenimento ci sono ancora LinkedIn, che però è un mondo a parte, poi Instagram, TikTok e YouTube, che è più una piattaforma di contenuti che in qualche modo fa anche un po’ da social.

Pietro: Anche TikTok secondo me è molto simile a YouTube come struttura: contenuti infiniti, tu scorri. Instagram per il format non può mai morire, perché servirà sempre un social in cui tu vedi solamente le persone che segui e che ti interessano, i tuoi amici. TikTok non è così: tu hai una homepage infinita e scrolli i contenuti. Quindi secondo me Instagram non morirà, sicuramente non nel breve termine.

Samuele: O almeno, la concezione di Instagram.

Pietro: Esatto.

Alessia: Sui social sbandieriamo sempre un po’ troppo il lato migliore di noi, soprattutto su LinkedIn, dove sono tutti già founder-di-qualcosa probabilmente. A volte dietro a questo volersi “super mostrare”, magari c’è una debolezza di cui non si parla mai abbastanza e tutto il tema del fallimento. Anche questa realtà ormai sta diventando un grandissimo cavallo di battaglia su LinkedIn, con tutte le persone che ti elencano i loro fallimenti. Adesso va di moda dire “Questo è il diario dei miei fallimenti”. Però, effettivamente, se ne parla ancora un po’ poco. Lato vostro, come content creator che avete iniziato quest’avventura da ormai diversi anni, un piccolo fallimento, se mai c’è stato, che avete accettato e siete andati avanti?

Samuele: Specifico che i fallimenti che la gente mostra su LinkedIn sono “Ho fallito con quest’azienda, ma adesso faccio 2 miliardi di euro l’anno”, quindi non è mai un vero fallimento. È poco utile che me lo dici in questo modo. Non te lo dice quando ha avuto il problema, ma dopo che è diventato il dio sceso in terra.

Pietro: Vabbè, ma loro vogliono farti capire che dopo un fallimento tu ti puoi rialzare. Puoi andare ancora più in alto di dov’eri prima.

Alessia: Puoi fare quattro exit come se nulla fosse.

Samuele: Nel nostro caso, la cosa più complessa che abbiamo sbagliato per ben due volte, però come i guru su LinkedIn l’abbiamo sistemata, è stato il passaggio da solo foto e quindi solo vignette statiche a video.

Mattia: “Ci siamo rialzati più forti di prima“.

Samuele: Dato che facciamo tutto quanto con delle foto, era la cosa più difficile passare a “Servono dei video per potersi mettere su YouTube, su TikTok, per poter utilizzare i Reel” e quindi abbiamo detto “Ok, proviamo a fare i video”. Abbiamo provato nel 2018 sbarcando su TikTok, però non ha funzionato. Abbiamo fatto qualche video.

Mattia: 2018?

Samuele: Nel 2018, sì sì. Siamo partiti molto presto, poi abbiamo chiuso perché abbiamo detto “Vabbè, non vanno”. E abbiamo chiuso anche demoralizzati dal fatto che in un video c’era la cappella Sistina di sfondo, con degli angioletti nudi, e TikTok ci ha rimosso il video. Rimuovendoci il video ci ha abbassato la copertura dei post.

Pietro: Che era già bassa.

Samuele: Abbiamo detto “Vabè, niente raga, a noi non va bene con i video”. Quindi ci abbiamo riprovato poi nel 2020 cambiando un po’ strategia, cercando di cavalcare i trend con le musichette e le cose che c’erano un po’ in tendenza su TikTok, ma anche lì non andava. E allora abbiamo detto “Ok, proviamo a coinvolgere un doppiatore. Cerchiamo di fare quello che facciamo attualmente, ma doppiato”. E lì, alla terza volta, ha funzionato.
Però per le prime due demoralizzati. Due anni di stop, che se magari avessimo continuato subito avremmo potuto sfruttare in modo molto positivo. Perché c’era ancora un po’ l’idea che è difficile dare voce a dei personaggi che non l’hanno avuta per cinque anni, ai tempi. Poi abbiamo detto “Ok, proviamo. Facciamo all-in, se non va neanche col doppiaggio, niente”. Poi lì i numeri sono sono cambiati, quindi ci siamo un po’ ripresi.

Mattia: E al terzo giorno, siamo resuscitati. E questa va su LinkedIn.

Samuele: Amen.

Tommaso: Usiamo il nome del podcast per chiedervi, come facciamo sempre a fine puntata, una cosa al volo. Una cosa velocissima che può essere professionale, non professionale. Davvero la qualsiasi, una cosa per ognuno, una cosa al volo. Vi mettiamo in difficoltà.

Pietro: Va bene.

Samuele: Serio è diverso da serioso.

Mattia: Il Negroni è il drink migliore di tutti.

Pietro: La carbonara è la miglior pasta che esiste.

Mattia: Ma posso dire che è banale?

Pietro: Ma tu hai detto il Negroni il miglior drink.

Mattia: Vabbè ma mi hai copiato.

Pietro: Ma che vuol dire!

Tommaso: Ne ho parlato prima, io quoto Mattia.

Pietro: Ce l’ho, ce l’ho. Meglio una gallina domani, che un uovo oggi.

ATTIMI DI CONFUSIONE

Tommaso: E con questa chiusa, ringraziamo i ragazzi di Legolize, Samuele, Mattia e Pietro. Grazie davvero di essere stati con noi.

Pietro, Mattia e Samuele: Grazie a voi per l’invito.

 

Grazie di essere stati con noi Una Cosa Al Volo è una produzione TEAM LEWIS con il coordinamento editoriale di Maria Pia e le voci di Alessia e Tommaso. 

Contattaci