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Cristina Migliorero
Nel 2014 Cristina diventa volontaria nei progetti di prevenzione rivolti ai giovani di Progetto Itaca Milano. Dal 2018 diventa Consigliere di Progetto Itaca Milano e Coordinatrice dei progetti di Prevenzione nelle Scuole a Milano e a livello nazionale. Dal 2023 è diventata inoltre Coordinatrice della formazione del progetto Itaca Lab.
Progetto Itaca è una Fondazione che promuove programmi di informazione, prevenzione, supporto e riabilitazione rivolti a persone affette da disturbi della Salute Mentale e alle loro famiglie.
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Alessia: Maggio è il mese della salute mentale. Tema di cui se ne parla sempre di più, ormai da diverso tempo, soprattutto da dopo l’ondata del Covid. Tutto quello che ha comportato quel periodo “storico” delle nostre vite, in qualche modo ci ha permesso di rimettere a fuoco determinati comportamenti e determinate situazioni che vivevamo e che erano fonte di malessere. Non lo dico io, non lo diciamo noi di Una Cosa Al Volo, ma sicuramente lo dicono i dati. Infatti, è abbastanza interessante notare come secondo una recente ricerca dell’Organizzazione Mondiale della Sanità oltre il 15% dei lavoratori soffre di disturbi psichici, segno di come il tema della salute mentale vada approcciato non soltanto nella dimensione privata, intima e familiare, ma anche e soprattutto nella sfera lavorativa. Di questo parleremo oggi, ma scopriamo con chi.
Tommaso: Diamo il benvenuto a Cristina Migliorero, responsabile nazionale di Progetto Prevenzione Scuola di Progetto Itaca.
Cristina: Buongiorno a tutti!
Tommaso: Oggi faccio io le presentazioni, perché questa puntata mi sta particolarmente a cuore. Grazie alla TEAM LEWIS Foundation, programma che permette a ciascun dipendente di nominare un ente a scelta per potergli fare una donazione in denaro, lo scorso anno ho supportato Progetto Itaca e tutto ciò che riguarda la salute mentale. Cristina, lascio fare a te le presentazioni di Progetto Itaca.
Cristina: Come prima cosa ti ringraziamo di questo gesto, perché per noi è molto importante.
Che cos’è il progetto Itaca? Progetto Itaca è un’associazione di volontari nata alla fine degli anni ’90, per la precisione nel 1999 a Milano. Ora è una fondazione con 17 sedi in tutta Italia, anche nel Sud. È diventata un’associazione a livello nazionale, che quindi può portare i suoi progetti su tutto il territorio nazionale. Noi non ci occupiamo volutamente di cura, ma di un’altra parte molto importante che è quella del supporto sia alle famiglie che alle persone. Quando ti capita di avere un problema di salute mentale o di avere un familiare con un problema di salute mentale, succede un vero e proprio terremoto nella tua vita e in quella di chi ti sta intorno. È molto importante che le persone che soffrono di un disturbo mentale e le famiglie non vengano lasciate sole. È importantissima la cura – ma per il percorso di cura ci sono i professionisti – ed altrettanto importante è avere supporto, sostegno e la possibilità di partecipare a progetti (che noi offriamo gratuitamente) che hanno lo scopo di togliere dall’isolamento, confrontarsi tra pari e ricevere le giuste informazioni per capire come muoversi e cosa fare in una situazione del genere. Accanto a questi, abbiamo anche progetti di prevenzione importantissima. Come per qualsiasi altra patologia che riguarda il nostro corpo, anche nel caso delle patologie che riguardano la nostra mente è fondamentale una prevenzione adeguata, altrimenti è più difficile riuscire ad affrontarle. Abbiamo deciso di iniziare proprio dai giovani, che sono il nostro futuro, avviando un progetto gratuito rivolto alle scuole, con lo scopo di sensibilizzare sul tema e dare un’informazione corretta, avvalendoci della collaborazione di psichiatri che vengono a titolo completamente gratuito, come se fossero dei nostri volontari perché credono molto nel progetto. Incontriamo i ragazzi per parlare loro dei temi che riguardano la salute mentale, a partire dai fattori che influenzano il nostro benessere mentale e psicologico fino ad arrivare a sintomi o segnali da tenere sotto controllo e per cui è fondamentale chiedere aiuto.
Un messaggio trasversale, che vale per giovani e adulti, è che quando ci si rende conto di avere un problema di questo tipo è fondamentale chiedere aiuto subito. Non bisogna tergiversare né spaventarsi, ma bensì riuscire a superare preoccupazioni e paura dei giudizi, perché un intervento tempestivo ti cambia veramente il corso della vita. Troppi ragazzi giovani si rendono conto di avere un problema, le famiglie non riescono a cogliere subito i segnali e arrivano a una richiesta di aiuto o di un percorso di cura troppo tardi, quando ormai tutto si è cronicizzato e riuscire a ritornare a un livello di vita buono diventa più complicato. Intervenire subito è fondamentale.
Alessia: Giustamente parlavi di come sia importante chiedere aiuto prima che un disturbo diventi cronico e sia più difficile intervenire. Soprattutto quando si tratta il tema di salute mentale, si parla di stigma. Prima ci raccontavi “dietro le quinte” che ancora oggi c’è ancora un po’ di timore ad affidarsi ai professionisti proprio per paura del giudizio degli altri. Immagino che attività come il mese della salute mentale cerchino proprio di abbattere lo stigma, ma realtà come Progetto Itaca come possono effettivamente in qualche modo intervenire su questa visione di quella che è la cura del benessere psicologico? Soprattutto dei più giovani, come giustamente ci stavi raccontando.
Cristina: Sicuramente, come stiamo facendo in questo mese della salute mentale, parlarne. Anche questo vostro contributo podcast sul tema è fondamentale: bisogna abbandonare l’idea che siano temi di cui non si può parlare o che ne possano parlare solo i professionisti, perché sono temi che riguardano tutti noi.
All’interno ci siamo posti questa domanda: “Oltre a quello che facciamo già abitualmente, cosa possiamo fare di più per raggiungere i ragazzi?”. Da qui abbiamo creato un nuovo progetto che si chiama Itaca Lab, coinvolgendo influencer e content creator. Ci siamo resi conto che da dopo il covid si parla tantissimo di salute mentale, a volte a sproposito, per cui bisogna stare attenti su come se ne parla. Un mezzo importante sono sicuramente i social, dove tanti content creator raccontano le proprie esperienze con un disturbo. Però, come ben sappiamo, non si può avere una percezione precisa di chi è all’ascolto, soprattutto se i numeri sono altissimi. Alcune ragazze che abbiamo coinvolto hanno milioni di follower, ovvero milioni di ragazzi che ascoltano, ma non sanno chi le stia ascoltando, in che stato è la persona o cosa stia vivendo. È importante avere la consapevolezza di mandare un messaggio che venga percepito dall’altra parte nel modo più corretto possibile, che non possa trasformarsi in un boomerang e avere degli effetti negativi, anziché positivi. Anche in questo caso ci siamo avvalsi della collaborazione di alcuni professionisti per affrontare il tema dell’informazione di base, i temi legati alla salute mentale e appunto sulla comunicazione, su come comunicare e raccontare la propria esperienza non solo per difendere chi è dall’altra parte, ma anche per difendere sé stessi dalle potenziali reazioni dei follower. È stata sicuramente un’esperienza molto bella e interessante per noi, perché ci ha aperto anche in maniera più chiara un mondo che non conosciamo così bene. Abbiamo incontrato questi ragazzi esclusivamente in presenza e questo è stato un valore aggiunto, perché anche tra di loro si è creata una bella sinergia e un importante momento di confronto anche tra di loro. Per noi è stata veramente un’occasione per avere degli alleati in quello che facciamo e l’impatto è stato talmente positivo che a breve partirà una seconda edizione di questo nuovo progetto.
Alessia: Giustamente ci stavi raccontando del progetto Itaca Lab che è stato rinnovato per una seconda edizione, segno che evidentemente avete toccato delle corde importanti. Parlavamo di come rapportarci ai giovani e come far passare determinati messaggi non così scontati, soprattutto non così facili, ma che non lo sono neanche per gli adulti. Sicuramente bisogna trovare la chiave di comunicazione giusta. È interessante il fatto che avete iniziato a fare formazione con i content creator, ovvero chi in primis si è esposto con la sua community per dei problemi che lo hanno riguardato o riguardata in prima persona. Qual è stato un po’ il feedback da parte dei content creator durante questo percorso di formazione? Che tipo di richieste ricevono?
Cristina: Le ragazze che abbiamo incontrato ci hanno raccontato che spesso si ritrovano ad avere delle vere e proprie richieste d’aiuto da parte dei loro follower giovani, ma non solo, anche da parte delle famiglie. Ci hanno chiesto per prima cosa possano fare o non fare, perché in questo caso è molto difficile calibrare con precisione gli interventi giusti e quelli sbagliati. Loro già avevano la consapevolezza di questo peso e responsabilità nei confronti dei propri follower. È stato molto importante dare una formazione adeguata e ribadire il concetto che la cosa più importante è dire “Chiedi aiuto rivolgendoti a dei professionisti“. Oltre a ciò, abbiamo sottolineato come sia necessario precisare sempre che si tratta della propria storia personale, quello che è successo e che decidi di raccontare vale per te. Fortunatamente siamo tutti diversi, non si può generalizzare, soprattutto su un tema come questo. Anche i percorsi di cura sono molto soggettivi. Diciamo che i punti fondamentali sono stati questi, oltre a tutta una serie di informazioni un po’ più tecniche sul tema, ma questo è stato quello che secondo me le ragazze si sono portate a casa.
Inoltre, ci ha fatto molto piacere avere da loro un feedback positivo su quanto sia stata importante l’esperienza per loro, di quanto si siano sentite accolte, capite e e di quanto sia stato utile rafforzare la consapevolezza che non sempre si può essere d’aiuto, aspetto che è importante per preservare se stessi. È stato un duplice intervento sia per il tipo di comunicazione da utilizzare con i propri follower, ma anche per aiutare i creator stessi ad affrontare situazioni complesse. In questi mesi abbiamo appunto cercato nuove adesioni al progetto e devo dire che parecchi ragazzi si sono resi disponibili a partecipare e a fare questa esperienza, per cui direi che il feedback complessivo è molto positivo.
Alessia: È molto interessante quello che dicevi sul fatto che bisogna stressare il messaggio, proprio a livello di comunicazione, che si tratta della singola storia. Alcune volte c’è la percezione che i social e tutto quello che passa su quel tipo di canale di comunicazione sia univoco e valga per tutti quanti noi, che anche qualunque tipo di emozione è in qualche modo universale. Invece non è così. Ognuno di noi ha una sua peculiarità, ognuno di noi ha una sua storia, che però dimostrate appunto con Itaca Lab può essere il gancio per affrontare un tema più vasto e impattare positivamente le generazioni più giovani in questo caso.
Quando si affronta il tema della salute mentale, è da tenere a mente l’importanza di raccontare le storie, non la storia. Questo potrebbe essere interessante anche per una campagna di comunicazione più ampia se qualche brand è all’ascolto, per calcare su questa tipologia di dettagli e aspetti che fanno veramente la differenza quando si condivide un certo tipo di messaggio.
Tommaso: Vedendo tutta questa questione da un altro punto di vista, vi è mai capitato a voi di ricevere non tanto delle richieste di supporto, quanto delle richieste di essere veri e propri attivisti per la salute mentale, per contribuire ad abbattere i pregiudizi e stereotipi?
Cristina: Abbiamo un progetto anche per questo. Si tratta di um progetto di attivisti digitali, ovvero ragazzi giovani (fascia 20-30 anni) che raccontano attraverso i social le loro esperienze con la salute mentale e parlano del tema. Oltretutto, alcuni di loro si sono anche resi disponibili a girare delle video testimonianze che noi portiamo nelle scuole. Insistiamo molto sui social perché la testimonianza è sicuramente qualcosa di molto importante e spesso vale molto di più di tante parole dette da uno specialista. Non è tanto importante per identificare una patologia precisa, perché ogni esperienza è diversa, ma serve per mandare questo messaggio che ce la si può fare a uscire da una situazione di questo tipo. Non ce la si deve fare per forza da soli, anzi, prima si chiede aiuto meglio è. E soprattutto, l’avere una patologia di tipo psichiatrico non significa avere una vita finita. Con le cure si possono raggiungere tantissimi obiettivi.
Le testimonianze di queste ragazze hanno avuto un impatto incredibile sugli studenti che noi incontriamo, lo abbiamo valutato tramite un questionario di feedback sull’esperienza. Nell’anno scolastico scorso, solo su Milano, abbiamo incontrato più di 3000 ragazzi e alla domanda “Come ti sono sembrate le testimonianze?” in 2200 hanno risposto scrivendo delle cose bellissime come “Ho capito di più cosa significa avere un problema di questo tipo”, “Ho capito che ce la posso fare anch’io” o di quanto sia importante chiedere aiuto e di metterci la faccia per raccontare la propria storia. Siamo rimasti molto stupiti perché non ce lo aspettavamo. Ci aspettavamo sì delle reazioni positive, ma non un coinvolgimento così ampio di ragazzi che hanno 16 anni e che a volte sottovalutiamo secondo me, soprattutto quelli di oggi.
Alessia: Verissimo. Tra l’altro, sempre affrontando un po’ il tema dei ragazzi, una delle “accuse” che si fa di più ai giovani è di vivere una vita sempre più interconnessa e digitale, quasi come se fossero un tutt’uno con questo smartphone. Facendo un paio di salti generazionali all’indietro, il tema dell’interconnessione è predominante in modo trasversale in tutte le fasce d’età. Penso alla mia, ma forse anche alla tua, è un tema che ci interessa un po’ tutti quanti. L’interconnessione dicono sia pure una delle grandi cause di tutti quei malesseri legati al benessere psicologico e alla salute mentale anche sul posto di lavoro. Parliamo di posto di lavoro perché è quello dove gli adulti trascorrono più tempo, creano un determinato tipo di relazioni e prendono realmente forma ansia, frustrazioni e soddisfazioni, un po’ come succede ai giovani a scuola. Affrontando il tema della salute mentale sul posto di lavoro in questo caso, qual è la situazione secondo secondo te e secondo Progetto Itaca?
Cristina: Lo vivo anch’io sulla mia pelle, anche se sono una volontaria e in teoria non lavoro. Come dicevi tu, questa iperconnessione in certi momenti è veramente devastante, perché subentra quasi l’impossibilità di mettere un limite tra quello che è l’attività lavorativa e il tempo libero. Ormai è una costante per tutti noi. Guardare la mail in un momento in cui non dovresti pensare a quella mail, mette comunque in attività tutta una serie di reazioni che ti disturbano. Ma cosa si può fare? Intanto bisognerebbe che anche nel mondo del lavoro si incominciasse ad avere una maggiore attenzione a quelli che sono i temi della salute mentale. A partire naturalmente dai vertici, affinché si crei un ambiente di lavoro in cui ci siano i presupposti per un benessere da un punto di vista non soltanto fisico e di sicurezza, ma anche mentale. Ci guadagniamo tutti, perché nel caso in cui si nascano difficoltà diventa un problema un per tutti, sia per la persona che ne soffre che per chi le sta intorno, per i colleghi e per l’intera realtà lavorativa. Sicuramente si possono poi migliorare le condizioni generali, così da evitare uno stress eccessivo da lavoro correlato. Se non sbaglio, esiste proprio un manuale INAIL preposto a fare una sorta di valutazione dei rischi da stress da lavoro correlato all’interno di una realtà lavorativa e il datore di lavoro ha l’obbligo di avere cura della sicurezza e della salute dei propri dipendenti. Le buone abitudini da adottare sono, ad esempio, rispettare l’orario di lavoro concordato dando la possibilità al lavoratore di avere dei momenti di stacco effettivo dall’attività lavorativa, formare i team leader nel gestire un gruppo al meglio, retribuire in maniera adeguata, distribuire in maniera chiara responsabilità e compiti. Sono tutte cose possono sembrare banali, ma che spesso non vengono messe in atto. E questo appunto può essere un grande problema.
Tommaso: Parlando della salute mentale sul lavoro. Secondo te e secondo Progetto Itaca, ci sono dei consigli o comunque delle buone pratiche specifiche che ti senti magari di consigliare alle aziende per approcciarsi a questa questa tematica? Ma soprattutto mi viene da chiederti se avete voi delle iniziative o dei progetti in atto con le aziende.
Cristina: Su richiesta organizziamo incontri per i dipendenti delle aziende che vengono in contatto con noi per diversi motivi. Vale un po’ per tutti parlare di questo tema a tutto tondo: parlarne noi come volontari, quando è necessario coinvolgere i professionisti… Però è fondamentale sensibilizzare tutta la popolazione, non solo quella giovane, su queste tematiche sempre più attuali. Finalmente abbiamo capito che salute non significa solo salute fisica, ma è tutt’uno. Come dice L’Organizzazione Mondiale della Sanità, non c’è salute senza salute mentale, è una parte fondamentale per stare bene.
Io mi permetto di consigliare alle aziende di prendere in considerazione di rivolgersi ad associazioni come la nostra per organizzare dei veri e propri incontri con i dipendenti per parlare di questi temi, coinvolgendo anche la classe dirigente per portare questo tipo di informazione nella maniera più ampia possibile. E per quanto riguarda i consigli, come riprendendo il discorso di prima, è necessario garantire un ambiente in cui siano favorite le relazioni, perché molto del nostro benessere psicologico, fisico e mentale deriva proprio da quelle. È importante creare un ambiente in cui le relazioni tra pari e con i capi siano più serene. O che quantomeno esistano queste relazioni, perché a volte si ha l’impressione di lavorare da soli nel proprio angolino e senza alcun tipo di rapporto con il resto delle persone che ci circondano. Questo sicuramente deve cambiare, dev’essere un nuovo modo di vedere il mondo del lavoro. Meno competizione, più relazioni.
Alessia: Quando hai parlato dei colleghi che stanno in un angolino e pensano a loro, non so perché ho pensato al mio collega qui di fronte, che ha esattamente questo approccio. No, sto scherzando. Bisogna aver rispetto anche di chi non è logorroico come la sottoscritta, quindi rispetto per te Tommaso.
Tornando un po’ al tema del benessere psicologico sul posto di lavoro, secondo te perché è ancora così difficile da affrontare? È dovuto al fatto che i dipendenti si sentono in una posizione di inferiorità o non vogliono far vedere determinate fragilità perché temono che possa in qualche modo bloccare la loro crescita professionale? Cosa frena esattamente il dipendente dal manifestare un oggettivo malessere?
Cristina: Qui ritorniamo alla famosa parolina magica, lo stigma. Purtroppo, nonostante se ne parli e nonostante si cerchi di fare il più possibile, la malattia mentale e il momento di crisi vengono visti ancora come un segno di debolezza e fragilità, piuttosto che una patologia come tutte le altre. Può capitare davvero a tutti di avere un momento difficile da questo punto di vista e la cosa più importante sarebbe avere una rete intorno a noi che non ci faccia sentire soli o né giudicati soprattutto, ma che ci aiuti a uscire dal momento difficile. C’è quest’idea che chi soffre di una patologia sia una persona con un’inferiorità intellettiva, che possa avere delle difficoltà a realizzare i suoi obiettivi e che quindi debba essere un po’ relegata in un angolo e curato, però sempre un po’ in disparte rispetto ai “sani di mente”. Quando noi poniamo ai ragazzi la domanda “Perché è così difficile chiedere aiuto? Se mi rompo una gamba non ho nessun tipo di problema a rivolgermi a un ortopedico e chi sta intorno a me mi è di supporto, ma se io ho un problema di questo tipo faccio molta fatica a chiedere aiuto” la maggioranza delle risposte è “Perché ho paura del giudizio degli altri”. Oltretutto, per i ragazzi non è neanche tanto un problema del giudizio dei pari, ma del mondo degli adulti e dei genitori, che vedono questo tipo di problema come un fallimento, o degli insegnanti che difficilmente capiscono l’entità del problema e lo interpretano come un non aver voglia o essere un po’ superficiale. Lo stesso accade nel mondo del lavoro: nel manifestare un problema di questo tipo, la paura è proprio quella di essere considerato un debole o un fallito, una persona che non è in grado di far fronte alle responsabilità e agli impegni. Se vogliamo che la salute mentale diventi un tema importante delle nostre vite e che sia vissuto come tutto il resto, ovvero qualcosa per cui intervenire nel caso ci sia la necessità senza farsene una colpa, è fondamentale cambiare il nostro approccio.
Tommaso: Sostanzialmente stiamo parlando di sindrome da burnout, condizione medica riconosciuta dall’OMS. Come intitola Marie Claire, 8 dipendenti su 10 sono pronti ad abbandonare il posto di lavoro. Per evitare ciò, ma soprattutto per evitare questa sindrome, hai dei consigli da dare ai singoli dipendenti per evitare insomma di essere stressati sul lavoro?
Cristina: Per la precisione, il burnout è una sindrome ma non è considerata ancora una malattia. È all’interno di questa classificazione dell’OMS, però viene considerata più che altro un fattore di rischio per la salute, non una diagnosi medica o una patologia psichiatrica.
Sicuramente, se non viene fermata in tempo può portare a delle conseguenze importanti, perché si manifesta in diversi stadi. Si inizia con uno stadio di esaltazione per il lavoro, quindi con un grandissimo impegno e altissime aspettative sui risultati. Si cerca di far sì che il lavoro sia la propria vita, senza avere più spazio per il tempo libero. Segue un momento di delusione, perché è umanamente impossibile sostenere un ritmo di questo tipo e c’è un calo dei risultati inevitabile, legato magari a una serie di problemi nella vita privata. Subentra una fase di delusione in cui incomincia a ridimensionarsi il tutto. Nasce un senso di frustrazione perché ci si rende conto di non essere in grado di fare queste cose, una sensazione di rabbia nei confronti di se stessi e dei colleghi, per cui diventa una situazione molto impattante anche per l’ambiente di lavoro. Alla fine c’è la fase più grave di devastazione, un appiattimento totale in cui c’è apatia e disinteresse per tutto, una sorta di morte professionale che ha tante conseguenze sia sull’ambiente di lavoro che sull’organizzazione dell’azienda.
È importante appunto evitare di arrivare a questi livelli anche perché può diventare una vera e propria sindrome che può impattare a livello fisico con gastrite, problemi di insonnia, problemi di rapporti col cibo e tutta una serie di risultati tangibili. In soggetti più predisposti, la sindrome da burnout può diventare anche un grande fattore di rischio per vere e proprie patologie psichiatriche come l’ansia e la depressione. Cosa fare per evitare di andare in burnout? Anche qui, i singoli possono mettere in pratica cose banali. Ad esempio, una cosa importantissima sono gli stili di vita: sappiamo quanto sia importante l’attività fisica, anche per abbassare lo stress. Naturalmente, come dicevamo prima, ognuno di noi è diverso, per cui non bisogna cercare delle ricette che vanno bene per tutti. Ognuno di noi deve imparare a conoscersi e capire che cosa gli fa bene, dobbiamo programmare e prevedere dei tempi nella nostra giornata per fare delle cose che facciamo esclusivamente per il nostro bene, non soltanto per per altre finalità. L’attività fisica non deve quindi essere vissuta come un momento di confronto e competizione, ma un momento per stare bene. In generale, è fondamentale trovare delle cose che ci rilassano, come ascoltare musica o dedicarci a un’attività che ci piace. Io adoro cucinare cucinare, soprattutto i dolci, e questa cosa mi dà molta gratificazione e mi rilassa. Lo stress comunque è inevitabile, fa parte un po’ di tutta la nostra vita. Esiste uno stress “buono” che ci serve per essere più performanti, una forma di ansia utile che ti serve a concentrarti e lavorare meglio. Però bisogna stare attenti quando questo tipo di situazione diventa più patologica e ci crea dei problemi. Poi è fondamentale lavorare sull’ambiente di relazione e avere intorno delle persone con cui poter avere relazioni gratificanti. Quando si crea una situazione di burnout, la cosa più importante sarebbe avere intorno una rete, a partire proprio dai colleghi di lavoro e dai capi, che sia accogliente, ci ascolti e ci dia sostegno.Fortunatamente, se si cambiano le condizioni in genere si esce abbastanza velocemente da una condizione di burnout. Basta riposarsi e cambiare il carico di lavoro. So che a volte non è possibile, però in linea di massima è così. Se si protrae molto a lungo, oltre all’eventualità di trasformarsi in una patologia, si aggiunge il rischio che cambiando le condizioni si rimanga comunque segnati dall’esperienza. Magari mi sento più insicura o comincio a ragionare sul fatto che alla prima difficoltà sono scoppiata.
Il fatto che il desiderio di cambiare lavoro sia tipico delle nuove generazioni probabilmente è perché non ci si ritrovano e questo forse fa ben sperare che ci sia una concezione diversa del lavoro e del tempo libero. Magari culturalmente qualcosa sta cambiando, perché non siete più disposti a sottostare a certi ritmi e a certe cose che vi vengono richieste, fortunatamente volete anche vivere qualcosa di diverso oltre al lavoro. Io la interpreto anche come una presa di coscienza del fatto che esista un modo migliore per lavorare, che questa poi è la riflessione che bisognerebbe fare a livello sociale a livello più ampio.
Alessia: Chiaro. Peraltro si dice che non si vive per lavorare ma si lavora per vivere, solo che spesso ce lo dimentichiamo.
Tra l’altro era molto interessante il discorso che facevi in relazione ai giovani, che impatta notevolmente sui lavoratori, legato a questo rincorrere la perfezione e avere paura del fallimento. Forse è da lì che nascono tutti questi malesseri e queste sindromi, che poi diventano purtroppo qualcosa di più cronico e di più grave. Come dicevi anche tu, bisognerebbe intervenire fin dalla più giovane età per insegnare che è giusto il fatto che non siamo perfetti e che non possiamo esserlo. Che forse è anche questo il bello della vita personale e professionale. Un altro discorso è poi farlo capire anche nei posti di lavoro, dove sicuramente viene richiesto un livello di perfezione molto alto che poi scaturisce le varie situazioni di burnout che ci stavi raccontando.
Cristina: Certo, è molto importante. Io però insisto sempre sul fatto che i giovani sono un po’ lo specchio di come siamo noi adulti, quindi è necessario che questo discorso parta in primis dalle famiglie. Spesso è la famiglia a richiedere certe prestazioni ai propri figli e questo può essere un problema. La richiesta sempre di essere al top. che ci arriva da tutte le parti, è deleteria. Se vogliamo cambiare qualcosa, dobbiamo unirci tutti insieme e nel nostro piccolo cambiare atteggiamento. I ragazzi ormai cambiano ad una velocità che noi adulti non reggiamo, mentre quello che sta intorno a loro non cambia in maniera incisiva. Secondo me, la scuola andrebbe un po’ rivista in questo senso. Anche qui, sono gli stessi ragazzi a richiederci interventi specifici durante la cogestione sui problemi legati allo stress. Adesso poi c’è una sorta di burnout che sta coinvolgendo i ragazzi universitari e i ragazzi delle scuole superiori, legato a questa richiesta di prestazione che ognuno di noi fa a se stesso di essere sempre al massimo. È difficile da gestire, bisognerebbe capire che è impossibile essere sempre al massimo, che non è giusto essere sempre al massimo e che non dev’essere considerata una fragilità o una debolezza non esserlo, bensì una risorsa perché possiamo anche fare dell’altro oltre a quello che dobbiamo fare sul lavoro p durante lo studio.
Stiamo vivendo un momento di transizione importante. Io ho molto fiducia nelle nuove generazioni, che si stanno un po’ facendo delle domande a riguardo. Speriamo che poi riescano anche a trovare le risposte giuste andando avanti. L’importante è che il mondo degli adulti si faccia un po’ da parte e ascolti di più quello che arriva dalle nuove generazioni, lasciandogli gli spazi giusti affinché le cose possano cambiare.
Alessia: Parlando proprio di famiglia, mi hai fatto venire in mente uno spot che ha realizzato la LEGO in occasione della Giornata Mondiale della Donna di quest’anno, in cui faceva vedere delle bambine che tentavano di costruire dei modellini con i famosi mattoncini colorati e si vedeva tutta la loro frustrazione nel non riuscire a fare il lavoro migliore possibile. Quando venivano intervistate, rispondevano che “A me mamma e papà hanno insegnato che devo essere perfetta, devo essere la migliore”. Effettivamente è lì in famiglia che nasce poi questo seme di insoddisfazione, che spesso ci portiamo avanti nelle nostre vite. Bisogna insegnare qualcosa di diverso ai nostri figli, proprio perché saranno le generazioni il futuro, i lavoratori il futuro e i dirigenti del futuro che a loro volta trasmetteranno quell’approccio.
Cristina: Dobbiamo spezzare questo susseguirsi di eventi che ci ha portato qui. Come dicevo, bisogna proprio lasciare spazio alle nuove generazioni, ascoltare quello che hanno da dire e modificare il nostro modo di vivere. Oltretutto, ritornando al discorso dei social e degli schermi che vengono considerati una sorta di appendice fisica, noi abbiamo riscontrato con grande stupore, interesse e speranza che proprio da loro c’è arrivata la richiesta di fare interventi durante le cogestioni delle scuole su quanto possa essere rischioso per la nostra salute mentale avere questo tipo di rapporto con gli schermi. Durante questi incontri c’è stata grande partecipazione. Abbiamo parlato di quanto questo mezzo possa essere un rischio oggettivo, ma anche una grande risorsa, e quindi di come sia importante trovare un equilibrio tra queste due cose. E questa è un’esigenza che arriva proprio da loro che usano il telefono e non possono fare a meno, ma d’altronde anche noi non ne possiamo più fare a meno.
La cosa importante di tutti questi argomenti è che spesso volentieri se ne parla molto, ma raramente se ne parla direttamente con i ragazzi. Si parla molto di loro, si scrivono tanti articoli, si fanno tante ricerche, però poi raramente ci sono dei confronti diretti e si dà veramente la parola a loro. Bisognerebbe imparare a farlo di più, perché loro hanno tanto da dire e noi a volte tanto da imparare.
Tommaso: Ringraziandoti per per il tuo intervento e per essere stata qui con noi ti chiediamo un’ultimissima cosa, sostanzialmente è l’ultima domanda che facciamo a ogni ospite ed è semplicemente “Dicci una cosa al volo”.
Cristina: Una cosa al volo è che ero molto emozionata per questo intervento di oggi e per questo podcast. E quindi, come ho raccontato quando parlavo tecniche per rilassarsi, penso che andrò a casa a cucinare un bel dolce che mangerò pensando a voi che siete qui a lavorare.
Alessia: E che siamo a dieta!
Grazie mille Cristina.
Cristina: Grazie a voi.
Alessia: Grazie dell’ascolto. Se l’episodio ti è piaciuto o se vuoi suggerirci nuovi temi da trattare, scrivici a [email protected]. Se invece vuoi riascoltare gli episodi della prima stagione ci trovi su tutte le principali piattaforme podcast. Una Cosa Al Volo è una produzione TEAM LEWIS e ti aspettiamo per il prossimo episodio.