Ascolta il 9 episodio della 2 stagione
Se vuoi lasciarci un commento scrivici a [email protected]
Per ascoltare tutti gli episodi, visita la pagina Una Cosa Al Volo.
Fabio Bin
Fabio Bin è considerato uno dei digital marketer più innovativi e di successo in Italia, con un ampio seguito anche sui social media. È Co-fondatore e CMO di WeRoad, e contribuisce a farne un marchio riconosciuto in tutta Europa oltre che vincitore del Premio Effie, il riconoscimento più prestigioso dell’industria pubblicitaria. Fabio si autodefinisce come un bilanciato connubio di competenze in marketing, contenuti e prodotti digitali, animato dal desiderio di creare e promuovere prodotti che suscitino amore e apprezzamento nelle persone.
Nel 2014 è diventato Responsabile della Pubblicità per ZooCom, l’agenzia creativa media del Gruppo OneDay con un focus su Gen Z e Millennials, con il compito di creare esperienze memorabili per portare marchi e aziende in dialogo con i giovani. Prima di co-fondare WeRoad nel 2017 con Paolo De Nadai, Fondatore e Presidente di OneDay Group, e Erika De Santi, è stato promosso a Responsabile Marketing & Innovazione Digitale per OneDay. Prima di entrare in ZooCom, ha acquisito la sua esperienza di marketing come Responsabile Sviluppo Business & Editoriale Digitale presso Hearst Magazines, lavorando su Elle.it, Marieclaire.it e Cosmopolitan.it. Inoltre è stato Responsabile Marketing Pubblicitario Digitale presso RCS MediaGroup, uno dei più grandi gruppi editoriali italiani, ma anche per Corriere.it, il quotidiano più importante d’Italia.
•·················•·················•
Alessia: Nuova puntata di Una Cosa Al Volo. Oggi si viaggerà parecchio, metaforicamente ma non troppo, perché il nostro ospite è Fabio Bin, CMO e co-founder di WeRoad. Ciao Fabio, benvenuto!
Fabio: Ciao e grazie per l’invito.
Alessia: Grazie a te per essere qui. Entriamo subito nel vivo della chiacchierata. WeRoad è un brand ormai conosciutissimo che fa parte del gruppo One Day. Nello specifico il gruppo OneDay ha chiuso il 2023 con 60 milioni di fatturato, non male come risultato. Com’è nato il progetto WeRoad? Come siete arrivati a quello che oggi è un risultato eccezionale?
Fabio: WeRoad in realtà è nato da un’idea e, come spesso accade quando si pensano i business, si parte dalle esigenze personali. Caso vuole che Paolo De Nadal, founder di OneDay e anche di WeRoad, aveva fatto un viaggio con un operatore internazionale in Nuova Zelanda ed era rientrato molto carico ed entusiasta. Caso vuole che qualche mese prima anch’io avessi fatto un viaggio in Vietnam con un altro operatore internazionale molto grosso. Questi due viaggi avevano la caratteristica di essere molto simili a quello che sarebbe diventato poi il mondo WeRoad, quindi piccoli gruppi di persone che non si conoscono e che viaggiano on the road. Paolo è un imprenditore. Mentre io sono tornato dal viaggio, mi sono divertito e basta, Paolo è tornato dicendo “Che figata. In Italia non c’è una cosa del genere, perché non la facciamo noi?”. WeRoad nasce davvero da questa domanda, con in più una sua visione, che è stata quella di dire “Facciamolo solo per un target specifico di persone, i Millennial”. Era Natale 2016, poi siamo partiti nel 2017, ma l’idea era “Non c’è nessuno che si occupa di questo target specifico in Italia in questo momento”. C’era già un altro player storico molto forte, che però non aveva questa “chiusura” sulla fascia d’età e da lì è partita l’idea. Io inizialmente l’avevo presa come una cosa sì interessante, ma non avrei immaginato cosa sarebbe diventato WeRoad negli anni, semplicemente perché Paolo è una persona che ha tantissime idee e prova tantissimi business. Questo è il business che di sicuro ha avuto, da un punto di vista di risposta di mercato, un successo davvero incredibile.
Alessia: Ma secondo te qual è stato il segreto di WeRoad? Come giustamente ci hai detto, senza che lo menzioniamo, esisteva già un grosso player che aveva più o meno delle caratteristiche simili, ma non era totalmente focalizzato su quella fascia di età. Secondo te perché le persone a un certo punto hanno sentito l’esigenza di iniziare a partire con degli estranei?
Fabio: Credo che questa cosa sia molto da ricercarsi in uno specifico momento storico e contesto generazionale. Se ne parla ancora molto in questi giorni, ma io non sono un grande fan di tutto lo storytelling sui Millennial come generazione che ha una profonda coscienza di appartenenza generazionale rispetto alle generazioni precedente. Io sono Generazione X e mi sento sempre un po’ messo da parte, perché tutto quello che non è Millennial è Boomer, mentre è un po’ più complesso di così.
Di sicuro c’è un elemento importante: WeRoad è andato a rispondere a un bisogno specifico per chi era tra i 25 e i 35 anni, una fase della vita in cui magari inizi a perdere gli amici di infanzia e dell’Università, qualcuno cambia città o va all’estero, qualcuno si fidanza e tu fai sempre più fatica a conoscere nuove persone. E poi, una situazione molto pratica e concreta, è quella del “Con chi vado in vacanza?” perché non sempre riesci a metterti d’accordo con amici e colleghi. Magari non avete le ferie nello stesso periodo o volete fare esperienze diverse, c’è proprio un problema fisico di incastri. Quindi, per rispondere alla tua domanda, direi che da un lato c’è proprio una necessità oggettiva del “Con chi vado in vacanza?” e dall’altro c’è il tema di “Come conoscono nuove persone?”. Io dico sempre che noi vendiamo viaggi, ma realtà il vero prodotto che vendiamo è la possibilità conoscere nuova gente. Diciamo spesso che parti da solo e torni con degli amici. Tante nostre campagne sono state incentrate su questo concetto di fare nuovi amici, conoscere sconosciuti e andare fuori la comfort zone. Ma il punto è questo: di base sei un trentenne e il tuo network di relazioni sta cambiando, quindi hai bisogno di trovare una soluzione: o parti da solo e fai esperienza solo, oppure parti da solo e ti metti in un contesto che ti aiuta a fare amicizia.
Poi ovvio, questo mette anche un sacco di dubbi. Specialmente all’inizio, sembrava un po’ da sfigati l’idea di partire da solo e fare un viaggio di gruppo, perché non hai amici e magari i viaggi di gruppo ti ricordano le gite dalle medie o i viaggi dei boomer. Non era così cool, mentre adesso è diventato quasi una cosa normale. Se ci pensate, le app di dating sono parte dello stesso fenomeno. Probabilmente 15 anni fa andare su un sito di incontri sarebbe stata percepita come una cosa assolutamente da loser, invece adesso sono diventate uno strumento come un altro per conoscere nuove persone.
Credo che il successo di WeRoad sia stato proprio quello di tagliare sulla fascia d’età. Ricordo una conversazione avuta con Paolo, dove io che mi occupavo della parte di marketing del progetto volevo suggerire la fascia d’età 25-35 attraverso immagini o certe parole, invece lui ha pensato di scriverlo in homepage, usare la parola coetanei e cose di questo tipo. In effetti ha avuto ragione, perché tagliare sui 25-35 è quello che ci ha permesso di dire “Viaggi con persone che hanno la tua età, quindi appartengono alla tua generazione. Hai un background condiviso di memorie ed esperienze generazionali, quindi diventa più facile creare la chimica nel gruppo”. Questo è stato secondo me l’elemento determinante. Ci abbiamo aggiunto anche degli aspetti, ad esempio il fatto che ogni viaggio ha un mood diverso: ci sono viaggi più avventurosi, altri più chill, viaggi che sono più all’insegna di arte, cultura e città. Il mix di fascia d’età e mood del viaggio ha permesso al prodotto WeRoad di funzionare.
Tommaso: Parlando da un punto di vista di comunicazione e marketing, rivolgendosi a questa fascia con l’obiettivo di conoscere nuova gente, quali sono state le sfide nel corso di questi anni? E qual è stata la vostra chiave vincente?
Fabio: In questo caso, abbiamo sempre pensato che per uscire in un mercato storico e consolidato come quello del travel, la chiave fosse quella di apparire molto diversi. La prima cosa che abbiamo fatto è stata quella di non utilizzare tutti i codici comunicativi tipici del travel. Se voi ci pensate, qualsiasi azienda – che sia un tour operator o un UTA che rivende viaggi sulle piattaforme online – ti presenta sempre certi colori e un certo immaginario: le palme, la sabbia, il mare. I colori tendono a essere l’azzurro, il verde, l’arancione del sole. Tantissimi tour operator hanno questo codice colore e questa narrativa. Noi non ci sentiamo un tour operator, ma non vogliamo neanche usare quel tipo di codici, con cui magari sarebbe più facile comunicare quello che facciamo, ma non passerebbe al target quello che vogliamo essere, cioè un’occasione per conoscere sconosciuti e viaggiare. Fin dall’inizio abbiamo scelto dei colori strani come il rosso e il nero, tipici delle nostre affissioni, che nel mondo del travel penso non si siano mai visti. Questo però ci ha reso assolutamente riconoscibili.
Al tempo stesso, abbiamo voluto parlare con un tono molto vicino a quello del target. In qualsiasi forma di comunicazione, non solo nella pubblicità ma anche nella relazione con il cliente, abbiamo sempre usato un tono di voce informale, abbiamo sempre usato il noi per trasferire il senso di appartenenza e di community. Dal 2017 abbiamo i meme tra i format principali – adesso sui social lo fanno tuti, ma nel 2017 non lo facevano così tante aziende – e non li usiamo per parlare direttamente di viaggi, ma di situazioni che i Millennial si trovano a dover vivere tutti i giorni. Ad esempio, una situazione tipica è che tutti i tuoi amici hanno un partner, si sposano, comprano casa, ecc. mentre tu hai prenotato un altro viaggio. Oppure il problema di fare i conti con lo stipendio, l’affitto e risparmiare per viaggiare. Il mondo del viaggio c’è sempre, ma come uno degli elementi della vita della del target, tanto che anche quando parliamo esplicitamente di viaggio e di itinerari di destinazione non comunichiamo mai il prezzo. Non c’è mai stato un post che dicesse “Viaggia in Messico a 900€”, semmai il punto è l’esperienza che puoi fare in Messico, indipendentemente che tu lo faccia con WeRoad o meno. E poi c’è sempre l’altro angolo del conoscere persone, quindi far vedere che effettivamente le persone si possono conoscere.
Per risponde alla domanda, sicuramente il codice comunicativo generale, il tono di voce e mettersi sullo stesso piano dei weroader. Non a caso, l’età media dell’azienda è di 29-30 anni e coincide con l’età media della del weroader, quindi è molto facile per noi parlare con quel linguaggio. Adesso che le generazioni evolvono e crescono, dobbiamo capire se saremo bravi a parlare senza risultare troppo cringe. I Millennial ormai sono diventati un po’ più grandi, i Gen Z crescono e noi vorremmo parlare anche a qualcuno di più grande, perché nel corso degli anni il tema dell’età è sempre stata per noi è un po’ croce e delizia. Da un lato siamo partiti con i 25-35, ma subito qualcuno ci ha chiesto “Ho 37 anni, posso venire?”, “Ho 40 anni, posso venire?” e così via. Per questo, abbiamo creato anche un’altra fascia d’età che è 35+, ma ha avuto diverse evoluzioni nel corso degli anni: 35-40, 35-45, 35-49 e così via. Ci stiamo adeguando al fatto che anche in questa fascia d’età ci sia la necessità di partire da soli o che le relazioni sociali si sfaldano e cambiano perché la società è cambiata, le persone si separano o vogliono riprendersi un pezzo di vita anche dopo i 40. Secondo me, la sfida che abbiamo di fronte è riuscire a comunicare tenendo questo tono di voce e parlare alle generazioni in modo corretto. Una delle più grandi preoccupazioni che ci sia nel team marketing, c’era anche un meme che girava internamente l’altro giorno, è quella di fare i giovani e di non saper più usare il linguaggio corretto per parlare al target. Per noi è fondamentale tenere un tono di voce ironico e autoironico, però parlando a persone che siamo in grado di capire e riconoscersi nel messaggio, evitando di fare come altre aziende che cercano di parlare ai giovani senza essere giovani.
Alessia: Il tema non è solo parlare giovani, ma riuscire a parlare a quel “plus”, perché la percezione che si ha dall’esterno è che voi siate un’azienda estremamente giovane, anche come età anagrafica dei vostri dipendenti. Mi chiedo come riuscirete ad arrivare a quel target, che si passa mediamente 10-15 anni con un vostro dipendente? Non è facile, anche questa è una sfida.
Fabio: Quello tutto sommato non è così difficile, perché il need alla fine è molto simile. Ti parlo proprio di prodotto viaggio. Tu dici “Voglio viaggiare, voglio fare quell’esperienza, ma non so con chi farla”. Nel momento in cui io riesco a darti un contesto di esperienza con persone della tua età, quindi per gruppo omogeneo di quarantenni che viaggiano con i quarantenni o di trentenni che viaggiano con i trentenni, non è così difficile, ci riusciamo.
La mia preoccupazione, semmai, è non riuscire più a capire davvero il target. Non riesci capire se il Gen Z sta entrando nella fascia d’età tale per cui può fare un viaggio WeRoad, non solo per la disponibilità economica ma per il mindset. Devi essere in quel mindset in cui hai voglia di provare cose nuove, cercando di ridurre al massimo i pregiudizi verso quello che troverai e le persone che che incontrerai, ma hai anche proprio bisogno di trovarti in quella condizione. Se hai già il tuo di gruppo di amici, è molto difficile che viaggi con WeRoad. Magari partono due o tre amici assieme, però sarebbe un viaggio con i tuoi amici. Invece noi vogliamo mettere assieme persone che non si conoscono. Io ho 49 anni e posso viaggiare tranquillamente con un gruppo di quarantenni, perché più o meno le cose sono le stesse. Chiaro che se viaggio con un gruppo a maggioranza 28-30 non gira. La cosa che facciamo è proprio tenere separati i partecipanti per favorire al massimo l’alchimia del gruppo nel viaggio, quindi consideriamo cluster di età, appartenenza generazionale e background condiviso.
Alessia: All’interno della stessa fascia anagrafica, ogni viaggiatore poi è a sé stante. C’è ad esempio tutto quel filone dei solo traveller, a voi interessa come target da provare a intercettare? Poi nella stessa fascia di età si viaggia in modi molto diversi, mi immagino chi è abituato a viaggiare in modalità backpacking e chi invece col trolley e un viaggio già prenotato e organizzato. Come riuscite effettivamente a mescolare questi interessi così diversi?
Fabio: È un ottimo punto. Comincio facendo una battuta sul trolley, perché nella nostra comunicazione cerchiamo sempre di prendere in giro chi viaggia col trolley. Poi la gente viene in viaggio dicendo “Ho preso lo zaino, ma potevo tranquillamente venire col trolley”. Diciamo che le persone amano il trolley, noi weroader amiamo lo zaino perché ti dà quel senso di avventura, pur non essendo una vera esperienza di backpacking. Perché comunque il solo traveller a cui fai riferimento tu non è il tipico cliente WeRoad e non so quanto riuscirebbe a fittare in un nostro gruppo perché è già troppo viaggiatore, mentre in un gruppo WeRoad ci sono persone che possono essere di questo tipo (poche) ma la maggior parte, come dicevo, sono persone che hanno semplicemente bisogno di un’occasione e di un contesto per poter viaggiare. La cosa che fa successo in viaggio è proprio l’alchimia tra i partecipanti, perché di base i posti che vai a vedere sono posti bellissimi, non puoi non essere colpito dai posti, il setting è fantastico. Quindi cosa che rende un viaggio eccezionale o non particolarmente buono da un punto di vista dell’esperienza? È proprio l’alchimia che si crea con il gruppo. Bisogna che le persone siano il più possibile affini o che riusciamo noi a creare delle esperienze tali per cui le persone si sblocchino e tirino fuori qualcosa di diverso. Infatti, i viaggi WeRoad hanno una particolare struttura di svolgimento per fare in modo che si spacchi il ghiaccio, le persone escano dalla comfort zone e che si creino dei legami tra le persone. Quando fai alcune esperienze un po’ forti, specialmente nei primi giorni di viaggio, sei in una centrifuga, però questa cosa aiuta molto le persone a legare, perché dopo due o tre giorni hanno già fatto una serie di esperienze che creano un background personale condiviso. Vi assicuro che in tre giorni succedono talmente tante cose che ti sembra di conoscere quelle persone da una vita. Potete leggere le recensioni o chiedere a weroader se ne conoscete per capire come si sviluppa questo rapporto, questa relazione talmente intensa che molti rimangono amici anche dopo il viaggio. Questa è una promessa che facciamo lato marketing, ma è vera. Molti poi riviaggiano assieme, sia con WeRoad che con altri, che per conto proprio. Noi però siamo stati gli abilitatori di queste relazioni.
Tommaso: Riprendo un attimo l’assist che mi ha fatto Alessia. Magari è una mia impressione, ma il concetto di solo traveller è stato sdoganato da dopo il Covid. Voi siete nati nel 2017 e dopo soli tre anni è arrivata la pandemia, che ha portato una situazione difficile in qualsiasi settore, ma nello specifico in quello nel travel. A livello di crisis communication come vi siete mossi?
Fabio: Credo che per tutta una serie di settori, non solo il travel ma penso anche a hospitality, eventi e concerti, è stato veramente qualcosa di tremendo. Il classico cigno nero inatteso. All’inizio, siccome siamo degli inguaribili ottimisti, ce ne siamo fregati per i primissimi due o tre giorni. Già prima che ci fossero le zone rosse, avevamo fuori una campagna di comunicazione abbastanza bold che diceva “TG: stai a casa. Mamma stai a casa. Io: ho prenotato un viaggio”. Questa campagna è stata pubblicata in affissione nella metro a Milano il giorno in cui è stata annunciata l’emergenza, abbiamo cercato di togliere i manifesti ma uno è uscito comunque e siamo stati tweettati da Burioni che ha chiesto chi fosse il geniale pubblicitario che ha fatto questa cosa. Ed eccolo qua.
I primi giorni speravamo fosse una cosa diversa. Poi ci siamo resi conto davvero di cos’era e quindi abbiamo lavorato i primissimi 10-15 giorni nel rimpatriare le persone che erano in giro per il mondo in quel momento e poi nel cercare di minimizzare tutti i costi dell’azienda, quindi rinegoziare i costi con i fornitori, gli affitti, accedere alla cassa integrazione e tutte queste cose molto dure. Dopo avevamo due opportunità: freezzare l’azienda o provare ad andare avanti. Noi ci siamo inventati un po’ di tutto. Una volta minimizzati i costi il tema era “Quanti soldi abbiamo per andare avanti come azienda?”, quindi abbiamo fatto diverse cose. La prima è stata iniziare a contare sulla community che abbiamo costruito e sui clienti che avevamo, quindi ci siamo inventati la gift card per quando si sarebbe potuto viaggiare a prezzo scontato. Sono andate molto bene, in due giorni abbiamo venduto centinaia e centinaia di gift card, ma soprattutto abbiamo iniziato a comunicare alle persone. Io e Paolo, in quanto founder, abbiamo scritto una mail a tutti i weroader spiegando una serie di ragioni e argomentando alcune nostre scelte, spiegando cosa stavamo facendo, spiegando che quel noi significava che eravamo tutti sulla stessa barca. Abbiamo esposto e raccontato tutto quello che ci succedeva come azienda, sia lato B2B, PR e giornalisti, sia soprattutto lato lato clienti.
In seconda battuta, non abbiamo mai smesso di comunicare. Questa è una cosa importante. Come fai a parlare di travel nel pieno della pandemia, dove non ti puoi spostare da un comune all’altro? Noi abbiamo cercato di parlare di travel o anche dei problemi legati al fatto che non si potesse viaggiare durante tutta la pandemia, nelle varie ondate e forme che ha avuto. Quando c’è stata la possibilità di fare delle campagne, le abbiamo fatte. Quando non avevamo più soldi per fare campagne, ci siamo inventati delle campagne “finte”.
Una campagna molto carina l’abbiamo fatta nella fase in cui si poteva tornare a viaggiare in Italia. Abbiamo puntato proprio sul fatto che fossimo in quarantena nel Paese più bello del mondo e potevamo riprendere a viaggiare. Poi in Italia non ci si è più potuti spostare da comune a comune. Noi ci siamo barcamenati moltissimo in questa situazione in cui volevamo continuare a far viaggiare e quindi, esclusi i momenti di puro lockdown, quando si poteva viaggiare noi creavamo viaggi. Tenete conto che a marzo 2020 avevamo circa 100 itinerari, mentre a giugno 2020 ne avevamo 180. Questi nuovi 80 erano tutti in Italia, in Europa o in Paesi dove si potesse andare. Peccato che però una persona prenotava, stava per partire e poi la settimana prima della partenza arrivava un nuovo ban del Paese. Era difficilissimo fare tutto questo incastro, tra rimborsi e situazioni varie. A un certo punto ero a pranzo con il team e ci avevano chiuso l’ennesimo confine, quindi abbiamo detto “Ma dove li mandiamo? Non sappiamo veramente più dove mandarli”. E li abbiamo capito che questa era una campagna di comunicazione: “Non sappiamo più dove mandarvi”. Non avevamo soldi per fare campagne, quindi abbiamo fatto questo fake billboard con scritto “Non sappiamo più dove mandarvi”. L’abbiamo fatto circolare sui social e incredibilmente le persone hanno creduto che fosse vero. Alcune concessionarie di pubblicità vivevano il nostro stesso problema: nessuno voleva fare advertising perché nessuno andava in metro né prendeva i mezzi pubblici. Abbiamo collaborato, ci hanno dato degli spazi e abbiamo creato una campagna vera su dei viaggi immaginari, ad esempio un viaggio a Hogwarts, uno su Marte, ecc. Quindi una campagna falsa che diceva una cosa vera (“Non sappiamo più dove mandarvi”) è diventata una campagna di comunicazione vera su viaggi immaginari. Questo è un esempio di attività di comunicazione.
Poi abbiamo preso tantissime posizioni, anche dal punto di vista politico: a un certo punto noi pensavamo che le decisioni del Governo italiano in termini di chiusura delle zone fossero eccessive, quindi abbiamo iniziato a fare una campagna molto schierata contro il ministro Speranza, fatta di meme, quarta di copertina di Internazionale con una lettera indirizzata al ministro, cartoline mandate al ministro e così via.
Il punto comunque è questo: durante la pandemia non abbiamo mai smesso di comunicare, oltre che di provare a far viaggiare le persone. Secondo me è questa la cosa importante. Forse l’avevo scritto anche in un post: non devi essere presente per i tuoi consumatori quando sono pronti a comprare, devi essere presente proprio quando sai che non compreranno. Perché se non sei più Top Of Mind, se smetti di comunicare, se smetti di esistere, vanifichi non solo tutto il lavoro che hai fatto, ma anche la community che hai creato. Nel nostro caso, una community fatta di persone che viaggiano con noi e che si riconoscono nell’essere weroader. Non volevamo dire “Non esistiamo più, è tutto finito”. Abbiamo detto “Ci siamo sempre. So che non comprerai un viaggio in questo momento, perché è pressoché impossibile, però siamo presenti e magari ti facciamo sorridere”.
Tommaso: Una scelta che comunque ha pagato, perché post Covid, con la riapertura dei confini, siete diventati Top Of Mind. Dopo la pandemia siete cresciuti esponenzialmente, tanto da aprire molte branch in Europa. Come cambia la comunicazione tra i vari Paesi e, ovviamente, con gli utenti?
Fabio: Questa è una bellissima domanda. Nota di servizio, perché siamo un po’ pazzerelli e siamo stati anche un po’ sfortunati. Noi abbiamo aperto il primo mercato estero in Spagna nel novembre 2019, poi a marzo 2020 è arrivato il Covid. La Spagna era partita molto bene in termini di risposta di mercato, però ha avuto questo stop legato al Covid. Alla fine delle prime due ondate principali di Covid, approfittando del fatto che un nostro competitor in UK aveva chiuso perché non voleva più operare per via della pandemia, abbiamo pensato di aprire in UK , ma è arrivata la variante Omicron. Siamo partiti un po’ zoppi su questi mercati, ma abbiamo comunque cercato di iniziare a comunicare col nostro tono di voce. Un anno e mezzo fa abbiamo aperto in Francia e Germania, i primi Paesi completamente post Covid con una situazione normale, anzi pure in fase di rimbalzo positivo del travel.
A livello di comunicazione, noi cerchiamo di essere un brand che ha un tono di voce molto informale, che parla direttamente al target e che usa le sue stesse parole e il suo stesso linguaggio, ma che cerca anche di essere bold. Diverse nostre attività sono oggettivamente un po’ questionabili, sappiamo perfettamente che possono far dire a qualcuno “Che figata, è super divertente” e al tempo stesso “Questi cretini cosa hanno fatto, come si sono permessi”. In Italia tutta questa cosa è molto facile da controllare, perché ormai conosciamo perfettamente il nostro target e le reazioni di chi cliente non sarà mai. All’estero stiamo cercando di gestire la comunicazione allo stesso modo, tenendo sempre questo tono di voce informale, ma ci sono delle peculiarità di mercato. Da un lato, il target dei Millennial molto omogeneizzato in tutti i Paesi, fanno parte della generazione Erasmus e hanno tanti amici internazionali. Un trentenne italiano di adesso è molto simile a un trentenne francese o inglese. Dall’altro lato, ci sono delle peculiarità specifiche di mercato. Per esempio, in UK sono molto sensibili su alcuni topic, come tutte le tematiche legate a inclusion & diversity che sono sentite al cubo. Prima di fare un gioco di parole in UK devi stare attento 50 volte, anche se non c’è minimamente l’intenzione di offendere. Anzi, WeRoad è super diverse e inclusive by design, non solo perché avremo una ventina di nazionalità diverse nel nostro team, ma anche per il fatto stesso che nasce per far conoscere persone che non si conoscono, quindi immaginate quanto siamo aperti all’altro. Però mi rendo conto che alcuni giochi di parole in alcuni mercati devono essere trattati in modo molto diverso, così come anche per il tema della sostenibilità. In conclusione, la risposta è: cerchiamo di mantenere il brand globale e molto riconoscibile per il tono di voce, ma anche per il fatto che fa cose un po’ strane, pazze e memorabili, con un tocco di nuance locale specialmente su temi che siano sensitive. Un altro pezzo importante è quello del cercare di fare dell‘instant marketing on point su quello che succede in ogni singolo mercato. Quello che è un tormentone in Italia, non è tormentone in Spagna o in Germania e così via. Ci sono dei tormentoni global, uno che abbiamo usato più e più volte è la situazione di Di Caprio e le sue fidanzate per parlare delle fasce d’età dei weroader, che ovviamente lo puoi usare in tutti i mercati. Ma per le situazioni specifiche di ogni mercato è necessario avere qualcuno nel team del Paese che ti sa dire “Questa è una cosa che qui è qualcosa, quindi dobbiamo farci un’attività di instant marketing, possiamo farci una campagna, un meme o una serie di cose”. Per esempio, il padel in Italia va tantissimo, magari in UK non va e ci sono sponsorship di attività sportive più azzeccate. Quindi l’idea complessiva è di mantenere un core fatto da tono di voce, giusta sensibilità sui topic che sono più nervi scoperti per il target e cercare di essere presente su tutto quello che succede di tipicamente come nazionale, verticale e locale.
Alessia: Grazie dell’ascolto. Se l’episodio ti è piaciuto o se vuoi suggerirci nuovi temi da trattare, scrivici a [email protected]. Se invece vuoi riascoltare gli episodi della prima stagione ci trovi su tutte le principali piattaforme podcast. Una Cosa Al Volo è una produzione TEAM LEWIS e ti aspettiamo per il prossimo episodio.