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Fabio Bin
Fabio Bin è considerato uno dei digital marketer più innovativi e di successo in Italia, con un ampio seguito anche sui social media. È Co-fondatore e CMO di WeRoad, e contribuisce a farne un marchio riconosciuto in tutta Europa oltre che vincitore del Premio Effie, il riconoscimento più prestigioso dell’industria pubblicitaria. Fabio si autodefinisce come un bilanciato connubio di competenze in marketing, contenuti e prodotti digitali, animato dal desiderio di creare e promuovere prodotti che suscitino amore e apprezzamento nelle persone.
Nel 2014 è diventato Responsabile della Pubblicità per ZooCom, l’agenzia creativa media del Gruppo OneDay con un focus su Gen Z e Millennials, con il compito di creare esperienze memorabili per portare marchi e aziende in dialogo con i giovani. Prima di co-fondare WeRoad nel 2017 con Paolo De Nadai, Fondatore e Presidente di OneDay Group, e Erika De Santi, è stato promosso a Responsabile Marketing & Innovazione Digitale per OneDay. Prima di entrare in ZooCom, ha acquisito la sua esperienza di marketing come Responsabile Sviluppo Business & Editoriale Digitale presso Hearst Magazines, lavorando su Elle.it, Marieclaire.it e Cosmopolitan.it. Inoltre è stato Responsabile Marketing Pubblicitario Digitale presso RCS MediaGroup, uno dei più grandi gruppi editoriali italiani, ma anche per Corriere.it, il quotidiano più importante d’Italia.
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Alessia: Hai menzionato le vostre affissioni, che sono molto famose, quasi iconiche. Effettivamente, se penso a WeRoad non penso minimamente alla parte digital, pur lavorando in un’agenzia di comunicazione, ma penso a queste affissioni con sfondo nero perché sono estremamente accattivanti. Il messaggio esce fuori, vuoi o non vuoi. Anche se non prenoterò un viaggio WeRoad, l’occhio comunque mi cade. Parlavi anche di instant marketing: come nascono queste affissioni? Quanto lavoro creativo c’è dietro? O, come racconti nei tuoi bellissimi post di LinkedIn, effettivamente è un lavoro molto last minute?
Fabio: La risposta è che davvero si tratta di un lavoro last minute, però riusciamo a farlo per una questione di mindset. In WeRoad il marketing è gestito internamente e un terzo del team di WeRoad è anche coordinatore di viaggio, quindi conosce molto bene il prodotto e lo fruisce direttamente da weroader o da coordinatore.
Fin dall’inizio, tutti hanno sposato questa logica dell’ironia e dell’essere diversi e credo che questa sia una delle caratteristiche fondamentali che ci ha permesso di costruire questo tipo di brand. Ci siamo sempre detti “Noi dobbiamo essere diversi” e per essere diversi vale tutto. Possibilmente cerchiamo di fare ridere le persone. Anche se ci sono creatività che qualcuno non sopporta e critica, ci sarà sempre qualcun altro che le apprezza perché gli strappano un sorriso. Questa è la chiave.
Se tutto il team ragiona così, è molto facile che da interazioni che non hanno nulla a che vedere con la creatività nascano delle idee, che possono essere messe a terra anche in maniera molto veloce. Qualcuno dice “Perché non facciamo questa cosa?” e si fa, oppure se acquistiamo last minute uno spazio in affissione è bellissimo, perché hai pochissimo tempo per fare la creatività (24/48 ore) ed escono fuori un sacco di idee. Il 90% magari non vanno bene, però qualcuna funziona. Secondo me i brainstorming sono una cosa che non andrebbe fatta, ma vengono fatti comunque e producono anche cose molto fighe, però tante creatività vengono fuori dal cortocircuito dato dallo scambio di idee.
Soprattutto, le persone del team sanno che non si devono porre limiti. Anche sui social, per esempio, non ci sono processi approvativi: il team pubblica quello che gli viene in mente. Se qualcosa non va bene, è più facile dare un feedback dopo. Non c’è questa cultura di “Faccio troppo vetting di idee”, perché è un po’ come censurarle. Rischi di ammazzare alcune idee buone. Poi io e Paolo siamo un po’ pazzi, per cui a volte il team che si autocensura e invece noi gli diciamo “Proviamo, facciamo, vediamo”. Le idee nascono veramente da un’interazione costante tra le persone e dal “Perché non facciamo questa cosa?” oppure “Ho scritto questa cosa”. È folle, però funziona.
Mi viene in mente un esempio concreto di una creatività non ci hanno approvato in UK. Stavamo cercando di ricreare una campagna che avevamo fatto in Italia e che forse qualcuno ha visto, ovvero la lista dei ponti. Si tratta di una campagna che è diventata molto virale, soprattutto nel dark social. Margherita, che era responsabile team brand, si era fatta la sua lista di ponti per viaggiare nel 2023 e ha realizzato che sostanzialmente con cinque giorni di ferie poteva farsi 38 giorni di vacanza. E mentre faceva questi calcoli per se stessa, ha realizzato che quella poteva essere una campagna. C’è stata l’opportunità di uno spazio e il momento era perfetto perché era fine anno, quindi l’abbiamo trasformata in una campagna che è andata vitalissima. Ma non è che ci siamo seduti a dire “Facciamo questa campagna perché deve diventare virale”. Tutte le nostre campagne vorremmo diventassero virali, ma siamo i primi a capire se la campagna può girare da quel punto di vista perché siamo noi i primi utenti della campagna stessa. Comunque, stavamo rifacendo questa campagna su UK, però la stessa formula non funzionava perché non hanno le bank holiday fisse, quindi non ci sono i ponti in senso stretto come per noi. Salvo che, lo scorso anno, c’era il Coronation Day di Re Carlo e quindi una bank holiday in più, che permetteva di fare di nuovo questo trick del conteggio delle ferie. Non riuscivamo però a mettere giù un copy che fosse sensato per spiegarlo. Poi una persona del team UK ha detto “La regina non muore ogni anno”. Copy perfetto! Ovviamente non ce l’hanno accettato, quindi è diventato “Approfittatene, perché l’ultima volta è stata nel 1946”. Però ecco, la campagna è nata così, da questo tipo di interazione, non c’è tutto questo reasoning. È un approccio generale condiviso, per cui quando ti viene un’idea poi la butti sul tavolo.
Alessia: Peraltro, lo stesso approccio anche per quella che secondo me è la vostra campagna più bella e che ripetete di anno in anno, ovvero quella con le foto dei viaggiatori. WeRoad non si è inventata nulla in questo caso: un brand che davvero si conosce bene e si sa raccontare mette in prima linea il suo consumatore finale. Chi meglio di lui può parlare del brand? Voi avete fatto lo stesso prendendo i selfie più carini o accattivanti dei vari viaggi e creando la campagna più identificativa del vostro brand. Anche in questo caso, leggevo che è nata quasi per caso dalle tue colleghe più junior. Non so se è una fake news.
Fabio: No, non è una fake news. Sono super contento e mi rende super orgoglioso che nel team chiunque possa proporre idee, indipendentemente dalla seniority o juniority. Buona parte team marketing di WeRoad è alla prima esperienza di lavoro, ha iniziato direttamente in WeRoad. Questa cosa da un lato ti permette di assorbire un certo modo di lavorare, ma dall’altro capisci che puoi proporre, prenderti la responsabilità e agire.
Nella fattispecie, quella è una campagna che nasce proprio dai social: abbiamo sempre fatto vedere i nostri weroader, social proof puro. Ricordo una bellissima campagna di ENG Direct di molti anni fa in cui loro avevano messo sulle affissioni dei clienti in carne ed ossa, quindi potevi andare da loro chiedergli le cose. La cosa interessante è che per WeRoad il prodotto lo puoi vedere tramite tantissime persone che fanno un’esperienza. E siccome noi abbiamo tantissimi selfie e foto di viaggio, la cosa più normale è stata mostrare le persone in viaggio in diversi contesti. È la campagna che facciamo ogni anno.
La storia che citi tu è assolutamente vera. Dopo il primo anno, ci siamo ritrovati a ricreare una sorta di follow up di questa campagna, ma volevamo cambiare il copy e rendere le immagini un po’ più parlanti rispetto alle alle situazioni. Le idee proposte dal team non erano eccezionali, io e il team non eravamo molto contenti, quindi stavamo quasi decidendo di andare per le campagne a fondo nero di cui parlavamo prima. Poi succede che, senza dirmi niente, un’intern del team mi fissa un calendar chiamato “Progetto tricheco”. Mi ritrovo quindi in un meeting con questa intern, nostra copywriter, e un’altra persona. Proprio come un’agenzia, mi presentano una campagna perfetta, costruita non solo sulla parte di affissione, ma declinata anche su social e video. Non so perché, ma temevano tantissimo il mio giudizio e io ricordo che quando hanno finito la presentazione avevano dei dubbi, ma io ho detto “Per me si fa solo a una condizione: che resta esattamente come l’avete proposta”. Di fatto viene refreshata ogni anno, cambiano un po’ i copy, però sì, se l’è inventata un’intern e questo mi rende orgoglioso, perché mi fa pensare che WeRoad è un’azienda che dà spazio alle idee di chiunque. Non conta chi sei, conta l’idea.
Alessia: Viste tutte queste idee che sono atterrate molto bene, come si alza l’asticella? Ogni tanto penso che ve la farete questa domanda.
Fabio: È la mia ossessione. È come quando una band fa il primo disco e spacca, poi deve fare il secondo disco e dev’essere all’altezza del primo, ma è difficile perché tendenzialmente non è mai così. Poi stufi perché fai sempre la stessa cosa, oppure fai cose diverse e il tuo pubblico non non ti riconosce più. È molto difficile, non ho una risposta. Sicuramente abbiamo avuto dei momenti in cui io sentivo di avere una crisi di creatività come team, oppure non volevamo più fare le campagne a fondo nero perché erano troppo scontate, quando in realtà sono il nostro trademark. Devi solo trovare il modo, specialmente in instant e in locale, per dargli una vita nuova ogni volta. È molto difficile, non ho una risposta perché non so come faremo, però è un po’ una mia ossessione,
Alessia: Immagino, perché poi le aspettative sono sempre altissime, quantomeno in metropolitana per le affissioni.
Fabio: Non c’è niente di peggio del “Ci hanno provato”.
Tommaso: Con la campagna del clacson avete alzato l’asticella secondo voi?
Fabio: Confesso, non pensavo avrebbe avuto tutto quel successo e quella risonanza. La campagna è nata abbastanza last minute, figlia della posizione e del “Inventiamoci qualcosa che faccia ridere”. L’ha pensata il team e quando l’ho vista ho pensato “carina”. Grande errore di valutazione, perché invece è stata una delle campagne che probabilmente ha avuto più visibilità, perfino più di quella dei ponti o di quella che ha iniziato tutto che diceva “Il miglior modo per far fuori la tredicesima: fatti un WeRoad”. Mi sembrava carina, ma non mi sembrava geniale. Invece, complice l’effetto che ha ottenuto, perché anche lì non ci aspettavamo fosse un effetto così grande tra le polemiche e il resto, devo dire che sì, secondo me in qualche modo ha alzato l’asticella. È ovvio, quando fai una campagna del genere ti aspetti che qualcuno si lamenterà, è ovvio che quello che è il risultato che vuoi ottenere. Infatti, qualcuno ha commentato sotto un mio post dicendo “I professionisti non fanno queste cose, sono rispettosi, ecc.” e io ho risposto “Sì, hai ragione. Ci sono i professionisti e poi ci siamo noi”. Io odio quest’idea dei professionisti della comunicazione, come se fossimo dei medici che operano a cuore aperto. Nell’economia generale delle cose, la rifarei tutta la vita, secondo me ha funzionato. Qualcuno ci ha detestato, a qualcuno siamo stati simpatici. È coerente con quello che fa WeRoad.
Alessia: Siamo verso la fine di questa chiacchierata. Tornando al progetto WeRoad: l’ultimo step che avete messo in campo è questo lancio di WeRoad.com, quindi la possibilità di far partecipare a dei viaggi globali con gente da tutto il mondo, senza vincoli di paese di provenienza. Credi sia il punto di arrivo di un percorso che inizia nel 2017? E soprattutto, era quello il punto di arrivo? Tu e Paolo lo avevate già visualizzato all’epoca voi o è nato strada facendo?
Fabio: Di fatto, WeRoad.com è il punto di arrivo di un percorso. Per il come ci si è arrivati, c’è un po’ di storia. Quello che funzionava e che poteva funzionare si basava sul concetto che i Millennials europei hanno abitudini simili, ma anche delle peculiarità. Abbiamo quindi iniziato a pensare al primo paese dove aprire dopo l’Italia e come molte realtà italiane fanno abbiamo pensato alla Spagna. La maggior parte del team, che è Erasmus Generation, diceva “Dovremmo fare subito una cosa internazionale, non ha senso aprire in un altro mercato, poi un altro e così via”. Paolo, che ha sempre intuizioni molto più avanti e laterali rispetto a tutti noi, è stato molto strict in questo caso. Era convinto che dovessimo far viaggiare le persone in maniera più omogenea possibile. Così come le fasce d’età e i mood, l’altro elemento di omogeneità è il background culturale di provenienza, di lingua, di abitudini e costumi, eccetera. Quindi lui ha fatto envisioning e ha detto “Voglio fare i weroader spagnoli che viaggiano con gli spagnoli, i tedeschi con i tedeschi, gli inglesi con gli inglesi”, posponendo un progetto internazionale.
Devo dire che ha avuto ragione, come spesso succede, perché questa cosa ci ha permesso di creare delle community locali di coordinatori spagnoli, tedeschi, francesi e anche di andare a intercettare i viaggiatori di ogni singolo Paese. Mentre nordics e UK possono viaggiare tranquillamente in lingua inglese con un gruppo di internazionali, non era detto che in Italia, Spagna e Francia ci fosse la disponibilità a viaggiare in un gruppo internazionale in lingua inglese, soprattutto per chi è meno avvezzo a viaggiare. Per qualcuno poteva essere un po’ troppo fuori dalla confort zone, quindi saremmo andati a toglierci un pezzo di mercato importante e al tempo stesso andare contro la nostra missione di connettere persone, culture e storie. Di fatto siamo andati con un approccio per mercato, per community locale di riferimento, e adesso siamo presenti in cinque cinque Paesi principali. Abbiamo 2500 coordinatori in tutta Europa e l’opportunità di fare leva su questi coordinatori, che sono per definizione viaggiatori e poliglotti, quindi possono tranquillamente gestire un viaggio con persone diverse. Già adesso ci sono coordinatori che appartengono a due community diverse, quindi viaggiano in più lingue e chiaramente è facilissimo per queste persone viaggiare con gruppi internazionali. Abbiamo tutte le capacità per gestire facilmente gruppi internazionali.
Ci sono altri mercati su cui non fisicamente con una community di coordinatori locali come Olanda, Danimarca, eccetera, ma che stiamo raggiungendo proprio grazie a questa offerta di WeRoad.com. È proprio un progetto figlio dell’Erasmus Generation, cioè di persone che hanno già amici internazionali. Non solo si trovano bene a viaggiare e parlare in inglese, ma vogliono viaggiare con persone di un altro Paese, perché è un’esperienza che hanno già fatto 5-10 anni fa quando fanno sono stati studenti Erasmus. Direi che alla fine è il coronamento di un percorso e al tempo stesso è la parte più alta di far viaggiare persone di provenienze diverse, ma anche di dare la possibilità alle persone di scegliere con chi viaggiare. Ad esempio, potrei scegliere di viaggiare con un gruppo francese perché voglio fare esperienza di una cultura con un gruppo internazionale. Da un punto di vista business è anche un po’ l’atterraggio di quello che vogliamo fare. Abbiamo questa visione di diventare leader europei entro il 2025 e di fatto un po’ già lo siamo, perché ci sono altri player locali e ma non c’è nessuno che sta approcciando questa attività allo stesso modo in Europa. WeRoad.com serve anche per essere presenti su tutto il continente.
Alessia: Per chiudere, parlando proprio di WeRoad.com, il dominio stesso ha avuto una storia travagliata dove di mezzo c’è un investigatore giapponese, un vecchietto imprenditore giapponese che era il proprietario del dominio e voi, che avete cercato in maniera matta e disperata di recuperarlo. Come è andato questo salvataggio?
Fabio: Intanto complimenti, perché avete studiato una storia che è molto complicata. Quando con Paolo abbiamo deciso il nome WeRoad, abbiamo comprato subito i domini principali ma non c’era il dominio .com. Paolo si era posto il problema ma io, che avete capito amo un po’ improvvisare, gli ho detto “Ma chi se ne frega del .com. Intanto partiamo, poi vediamo, ci inventeremo qualcosa o prenderemo un altro dominio”. Avevamo sottovalutato che non sapevamo di chi fosse la proprietà del .com, o meglio, sapevamo che era un’azienda giapponese, però non sapevamo di più.
Abbiamo cercato fin da subito di acquisirlo e nel corso degli anni abbiamo scoperto diverse cose. La prima cosa è il dominio era di questo sito giapponese che faceva elettronica di consumo, non era un sito mobile, non era manutenuto, usava i plug in flash degli anni 2000… Insomma, era un po’ abbandonato. Proviamo contattare il proprietario, ma non ci risponde. Con i primi viaggi in Giappone mandiamo i coordinatori a cercare gli uffici di questa azienda e il suo proprietario, ma non è stato facile. A un certo punto troviamo il proprietario e iniziamo comunicare via mail. Gli spieghiamo chi siamo e che volevamo acquisire il dominio, che eravamo pronti a fargli una proposta, ecc. Lui, molto gentile, ci dice che non è interessato a venderlo, ma siccome non gli interessa il dominio, ce lo darà quando andrà in pensione. Rimaniamo sempre in contatto con lui, praticamente un ping all’anno.
Poi ad un certo punto sparisce e ci preoccupiamo, qui assoldiamo un investigatore privato giapponese assieme a degli avvocati giapponesi per cercare questo signore. Addirittura ci mandavano i video delle case dove citofavano e non rispondeva, dell’ufficio, ecc. Finalmente lo ritrovano e ci dà il dominio. Poverino, non ce la faceva più! Lo abbiamo praticamente stalkerato per anni. Peccato che però non avesse le password del dominio, quindi ci ha rimandato al suo provider, che stava sul monte Fuji. Anche qui non ci rispondono. Organizziamo una vera e propria missione con gli avvocati e il nostro CPTO al Monte Fuji. Con un po’ di fatica, alla fine ce l’abbiamo fatta e ci hanno dato le password e tutto il resto. Dopo sette anni abbiamo avuto il dominio .com, però lui è stato molto carino e ci ha sopportato per tutti questi anni. Immagino che non capisse. Ma chi sono questi qua? Cosa vogliono? Però è stata un’avventura, veramente.
Alessia: Diciamo che è in linea con quello che è WeRoad.
Fabio: Sì!
Alessia: Doveva essere un’avventura anche recuperare il dominio, evidentemente. Direi che siamo alla conclusione.
Tommaso: Chiudiamo con la nostra solita domanda di chiusura. Ti chiediamo di dirci una cosa al volo.
Fabio: Io chiedo a tutti e alle persone che lavorano con me: non datevi limiti. Ci facciamo un sacco di problemi perché pensiamo che le cose non si possano fare, che siano sempre un po’ troppo. Diventa un modo per ammazzare l’innovazione e anche noi stessi. Quindi non datevi limiti.
Alessia: Grazie mille, Fabio.
Tommaso: Grazie, Fabio.
Fabio: Grazie a voi, grazie a tutti.
Alessia: Grazie dell’ascolto. Se l’episodio ti è piaciuto o se vuoi suggerirci nuovi temi da trattare, scrivici a [email protected]. Se invece vuoi riascoltare gli episodi della prima stagione ci trovi su tutte le principali piattaforme podcast. Una Cosa Al Volo è una produzione TEAM LEWIS e ti aspettiamo per il prossimo episodio.