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Giorgia Governale
Laureata in Lettere classiche, giornalista professionista e master in relazioni pubbliche e marketing, ha lavorato fino al 2014 come giornalista presso l’agenzia giornalistica ANSA e curato vari uffici stampa di progetti e realtà locali e nazionali. Nel 2014 si è trasferita a Milano e iniziato a lavorare per il Non Profit, prima e per diversi anni per un’ONG che si occupa di Adozioni internazionali e successivamente per Progetto Arca. Qui coordina, in qualità di responsabile, il team che si occupa di comunicazione ed eventi.
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Alessia: Bentornati alla nuova puntata di Una Cosa Al Volo. Oggi è con noi un ospite molto speciale, soprattutto per il tema che andremo a trattare, ovvero Giorgia Governale, responsabile comunicazione di Progetto Arca. Si tratta di una fondazione storica molto importante, che quest’anno compie trent’anni. Ciao Giorgia!
Giorgia: Ciao, buongiorno a tutti! Grazie a voi per l’invito.
Alessia: Parlavamo di Progetto Arca e della sua lunghissima storia. Due parole per raccontare quello che fate.
Giorgia: Quest’anno Progetto Arca compie trent’anni, quindi è un anniversario particolare. Nasce nel 1994 e sostanzialmente dà supporto a tutte le persone che stanno attraversando un momento di difficoltà personale, esistenziale o economica. Spaziamo dal dare supporto e assistenza ai senza dimora, alle mamme con bambini in difficoltà o alle famiglie che stentano ad arrivare a fine mese. Aiutiamo tutti coloro che stanno vivendo un momento di fragilità e tendiamo loro la mano per dire “Noi ci siamo, ti stiamo dando un aiuto per rialzarti e riconquistare pian piano la tua autonomia”.
Alessia: Entriamo subito nel vivo della puntata. In questo caso parleremo con Giorgia di comunicazione nel Terzo Settore e quindi di tutti gli enti no-profit e delle organizzazioni internazionali strutturate. Noi in TEAM LEWIS sentiamo particolarmente questo tema perché abbiamo una Fondazione che si occupa proprio di supportare con attività varie le associazioni in tutto il mondo. Per noi, tutta la sfera del no-profit e tutto quello che ad essa è collegato ci è particolarmente caro. Da qui anche la voglia di confrontarci con te e con Progetto Arca.
Tornando proprio al tema della comunicazione nel campo no-profit, volevo capire con te quali sono i rischi che spesso si possono incontrare quando si mette a terra una strategia di comunicazione. Te lo chiedo perché tempo fa leggevo un articolo molto interessante che spiegava come il grosso problema di chi lavora nel no-profit è la mancanza di autostima, nel senso che molto spesso c’è una sorta di sudditanza di chi fa comunicazione no-profit nei confronti della comunicazione profit. Quest’ultima è percepita molto professionale e autorevole, mentre a volte c’è la sensazione che chi si occupa di comunicazione no-profit sia sempre un po’, come dire…
Giorgia: Improvvisato.
Alessia: Esattamente, un po’ all’arrembaggio. Raccontaci un po’ tu come la vivi.
Giorgia: La sensazione che tu hai è sicuramente fondata. Agli inizi le organizzazioni no-profit erano spinte molto dalla dal desiderio e dalla volontà di fare del bene e quindi c’era talmente tanto spirito volontaristico di mettersi alla mercé degli altri che si faceva un po’ di tutto, ti mettevi in gioco e davi una mano.
In realtà, nel corso degli anni si è capito che il no-profit è una cosa seria, che il sociale è una cosa seria, che il terzo settore è una cosa seria, che i problemi nella società sono tanti e bisogna affrontarli con professionalità. Da qui c’è stato un cambio anche di prospettiva anche nel recruiting delle risorse che devono lavorare all’interno del no-profit. È corretto circondarsi di persone che abbiano delle competenze, che abbiano fatto un loro percorso di studi, che siano preparati, come forma di rispetto nei confronti di coloro che sono i beneficiari dei progetti che tu metti in campo. Va bene mettersi a disposizione, va bene che se io mi occupo di comunicazione posso dare un contributo in altri ambiti se è necessario, però è corretto che per ogni attività ci sia chi sappia fare il proprio lavoro. È così che il no-profit si è strutturato sempre di più.
Questo complesso di inferiorità che percepisci è reale, però ci stiamo sempre più strutturando per tenere il passo. Di questo se ne accorgono anche le aziende, che cercano sempre di più le realtà del no-profit anche nelle attività di co-progettazione. C’è proprio una volontà costruttiva da parte delle aziende: non ricevi gli input in maniera passiva dall’azienda, ma è l’azienda che si siede al tavolo con te e dice “Cosa facciamo insieme?”. Questo vuol dire che c’è una considerazione diversa da parte delle aziende in genrale.
L’altra domanda che mi facevi sui rischi della comunicazione. Uno dei principali, molte volte, è la noia, l’essere pedanti. Mi spiego meglio. Carmen Consoli, che è una cantautrice che io amo molto perché tra l’altro è della mia terra, cantava “Parole di burro”. Cosa si intende? Molte volte ci si affida all’empatia estemporanea. Le parole di burro son quelle che lì per lì ti fanno effetto, ti scaldano il cuore, ma poi si sciolgono e non ti rimane nulla. Non creano quel reale cambio di passo, che invece è necessario, quindi non ti rimane nulla. Ti rimane la noia. Poi, soprattutto se questa forma di sentimentalismo si unisce al moralismo facile, è ancora peggio: se tu ti emozioni sei buono, se doni sei perfetto. Questo però non provoca dei reali cambiamenti né in te donatore, azienda o istituzione, né nella società. Se da una parte prendo d’esempio “Parole di burro”, d’altra parte prendo d’esempio il mito di Perseo di Calvino. Se Perseo si poneva di fronte alla Gorgone, questa aveva il potere di trasformarlo in pietra. Quindi che si inventa Perseo? Vola alto sulle nuvole, guarda la Gorgone e la sconfigge guardandola attraverso il suo stesso riflesso. La lezione che possiamo trarne è quella di assumere la stessa leggerezza, che non vuol dire superficialità, ponendosi davanti a quelle che sono le Gorgoni attuali senza cementificarli in pietra. È necessario vedere concretamente l’impatto problemi come povertà, bambini sperduti nei villaggi, famiglie in difficoltà e dipendenze varie hanno sulla società e affrontarli con leggerezza e ottimismo, senza però trasformarli in simboli privi di storie o identità.
Tommaso: Collegandomi al cambio di passo che avevi menzionato e a questa leggerezza, in termini di comunicazione e marketing secondo te quali possono essere altri i valori o delle linee guida che possono aiutare a rinforzare la comunicazione e la relazione con donatori e stakeholder?
Giorgia: Secondo me la trasparenza nei dati, perché fa capire a chi è dall’altra parte – che sia il donatore, l’utente social, l’azienda o l’istituzione – la gravità o l’entità del problema che tu vuoi affrontare e risolvere insieme, creando una forma di coinvolgimento ed empatia. Oltre alla trasparenza dei dati, è importante ance la trasparenza delle storie, che però non devono essere pornografia del dolore. Progetto Arca non farà mai racconti o comunicazioni pietistici, perché cerca sempre di raccontare e coinvolgerti prospettandoti già la soluzione e quindi anche il valore di costruire insieme qualcosa di buono e di risolutivo. Non tenderà mai a colpevolizzare chi non si trova in quella situazione, ma piuttosto prova a creare una base comune, un coinvolgimento.
Alessia: Colgo la palla al balzo per parlare di pornografia del dolore. Si parla anche di pornografia della povertà in riferimento a determinate situazioni mondiali ed effettivamente è un tipo di totem della comunicazione che ancora oggi viene utilizzato tantissimo dal settore no-profit. Collegandomi anche al punto iniziale della bassa autostima, a volte la percezione – al netto dei professionisti che ci lavorano – è che bisogna spingere su questo tasto della pornografia della della povertà per creare una relazione con potenziali donatori e stakeholder. Mi sembra capire chiaramente che per Progetto Arca non funziona così, ma secondo te perché ancora è così difficile da scardinare come approccio comunicativo?
Giorgia: Probabilmente perché nell’immediato sembra avere più appeal, ti colpisce. Però, ricollegandoci a quello che dicevo prima, ti può muovere qualche leva emotiva nell’immediato ma non pone le basi per una collaborazione duratura. Forse esagero, però la via più facile è provocare la lacrima o un senso di colpa, anche se poi si rischia di fossilizzarsi solo su questo. Dall’altra parte, si rischia di essere abituati a quel tipo di immagini. Secondo me, bisogna fare lo sforzo di andare oltre perché la povertà esiste, così come esistono l’abbandono dei bambini, la mamma che non arriva a fine mese oppure la signora che fa la fila alla mensa perché deve decidere se pagare la bolletta o mettere in tavola una pietanza. Tutto questo esiste, lo sappiamo. Ma andiamo oltre. Ti faccio vedere in maniera serena e positiva quello che possiamo fare. Anche in termini di immagini, video e fotografie, noi tendiamo sempre a mostrare tante persone sorridenti. Sicuramente non fanno festa e non è che andiamo a scardinare o negare il problema, però è un tipo di comunicazione più rassicurante.
Alessia: Peraltro, chi riceve quel tipo di messaggio è anche ormai un po’ assuefatto. Quello che poteva magari funzionare 20 o 30 anni fa, ma anche solo 10, oggi probabilmente non ha più la stessa carica per chi riceve il messaggio. Siamo ormai bombardati da un determinato tipo di immagini, quasi come se non ci facesse più effetto. Che è anche un po’ triste da dire.
Giorgia: È un po’ quello che riscontriamo nel nostro quotidiano, nel salotto buono di Milano. Il Duomo o San Babila la sera si trasformano, ma anche durante il giorno vedi persone che stanno nei loro giacigli di cartone sotto i portici con dietro la vetrina di importanti brand. Eppure la gente entra ed esce dei negozi e queste persone diventano invisibili, ma ci sono. È per questo che dobbiamo cambiare rotta: la comunicazione deve trovare altri canali per fare breccia nel cuore e nella testa delle persone. Il problema c’è, ma è come se non ci fosse. In realtà il problema c’è e lo sappiamo tutti, dobbiamo solo trovare un modo diverso per farlo vedere.
Alessia: Parlando di Tone of Voice e dell’approccio a questi temi sociali, giustamente dicevi che bisogna cambiare passo e trovare delle chiavi di lettura diverse. Ma come si può rendere un po’ più “fresca” una comunicazione che si occupa di temi estremamente profondi, intensi e anche pesanti per il carico emotivo che hanno?
Giorgia: Altre realtà hanno fatto ricorso all’ironia. Non è sbagliata e anche Arca ha fatto ricorso all’ironia, però come in ogni cosa ci vuole equilibrio, misura e il contesto adatto. L’ironia aiuta a sorridere, però allo stesso tempo ti spinge a riflettere. Mi spiego meglio. L’ironia aiuta a farti aprire gli occhi su qualcosa perché la vedi in maniera diversa, quindi c’è un’iniziale senso di straniamento. Però poi arriva il messaggio, perché il problema non viene sminuito, semplicemente ti ingaggio e te lo faccio vedere sotto un’altra chiave. Ti conduco per mano nella riflessione necessaria o nella call to action.
Anche Progetto Arca ha fatto ricorso all’ironia e nella realizzazione di un video per la “Zuppa della Bontà”, un nostro evento di piazza annuale che consiste nella distribuzione di zuppe dietro una donazione libera. Il messaggio è che la zuppa calda è quello che Progetto Arca garantisce garantisce sia ai senza dimora che vivono per strada, sia alle famiglie in difficoltà. Però cosa succede? Che l’evento di piazza è affidato ai banchetti con i volontari, ma molte volte sono visti come la bestia nera da evitare. Quelli che sono per strada e ti vengono incontro, poveretti, hanno la vita molto dura per fermare le persone perché inventano le scuse più strane per non fermarsi… Quello che finge di parlare al telefono, quello che finge di parlare un’altra lingua. Ecco, in quel caso abbiamo costruito, grazie a Terzo Segreto di Satira, un video che abbiamo diffuso sui social, sul sito e tra i nostri donatori. Nel video si passano in rassegna, in maniera comica, tutte le scuse che puoi accampare per evitare di fermarti. Il messaggio finale è “Se le abbiamo dette tutte e non ne hai un’altra, allora fermati al banchetto che ti aspettiamo”. Quindi era un modo simpatico di prendere in giro chi hai davanti, però mantenendo sempre serietà e professionalità.
La misura e il contesto sono molto importanti. Spesso l’ironia va bene quando devi raccontare degli anniversari, delle date. Non penso che faremmo mai ironia sulla situazione di povertà delle persone o sulla signora che appunto non riesce ad arrivare alla seconda settimana del mese e ha il frigorifero vuoto. Ci sono dei temi dove l’ironia è meglio non usarla.
Alessia: Tra l’altro prima giustamente menzionavi il tema degli invisibili, che a Milano è particolarmente sentito. Mi è tornato alla mente di quando io mi sono trasferita a Milano e ricordo benissimo un mio caro amico che via WhatsApp non mi chiese né come stavo né come stesse andando. Mi disse “Ma è vero che a Milano nel centro storico ci sono un sacco di senzatetto?”. Così, dal nulla. Mi fece molta specie, perché lui associava quell’immagine al centro storico di Milano, il che è un po’ paradossale, se pensiamo a quanto siano in crescita i dati del turismo in questa città. Evidentemente è un problema reale, che Progetto Arca quotidianamente cerca di affrontare e sul quale cerca di tenere alta l’attenzione.
A questo proposito, voi avete fatto una un’azione di comunicazione molto interessante, un po’ out of the box, immediata e anche molto economica. Nonostante il budget molto piccolo, ha avuto veramente un’ottima risonanza anche sui media nazionali. Mi riferisco all’attivazione che avete fatto per San Valentino. Praticamente avete coperto tre statue molto famose di Milano con una coperta, che è un po’ il simbolo di chi purtroppo si ritrova a dover dormire per strada e durante la stagione più fredda cerca di coprirsi come può. Realtà come Progetto Arca, tra le varie attività che fanno, distribuiscono appunto coperte. Come è nata l’idea? Credo che sia stata geniale proprio per la semplicità di attuazione e per i costi molto bassi. È un po’ il sogno di tutti noi PR riuscire a fare una campagna di questo tipo.
Giorgia: L’idea è nata da un brainstorming in ufficio e dalla volontà di capovolgere il punto di vista. I nostri amici senza dimora sono invisibili, quindi chi altro sta giorno e notte per strada? Le statue. Nel nostro caso abbiamo scelto Leonardo Da Vinci, Manzoni e Cristina Trivulzio, che sono i tre simboli di Milano. A loro sono state dedicate delle statue essendo personaggi che hanno fatto la storia tanto di Milano e della cultura italiana, ma chi sono realmente le persone più importanti della città? Loro, così come anche le persone in difficoltà che molte volte dormo ai piedi di quella stessa statua e davanti alla quale magari ti fai la foto, ignorando che lì dorme Saverio. Abbiamo quindi pensato di coprire le statue facendo una sorta di flashmob, perché in realtà è stata concepita così: “Facciamo in modo che Milano si svegli una mattina con le statue con sulle spalle una coperta e vediamo un po’ la reazione della gente”. Perché è sempre lì il punto: attirare, svegliare, far aprire gli occhi alle persone. Volevamo capire chi si fermasse a chiedere qualcosa ai nostri volontari operatori che erano lì nelle piazze. Mano a mano la cosa è cresciuta, è stato coinvolto anche il Comune di Milano, inevitabilmente, così come anche la Sovrintendenza ai Beni culturali e tutti sono stati assolutamente entusiasti dell’idea, perché come dici tu era semplice e immediata. Effettivamente, i turisti, le persone che correvano per andare al lavoro e i bambini si fermavano e guardavano, chi storcendo un po’ il naso e andando davanti, chi invece cercava di capire. Un’idea economica sì, nel senso che al di là delle autorizzazioni di suolo pubblico e dei beni culturali, alla fine abbiamo posizionato le coperte e realizzato dei video registrando anche la reazione e le domande delle persone. Gli chiedevamo “Ma secondo te perché Leonardo da Vinci ha una coperta sulle spalle?”. Ovviamente, i più disarmanti ma autentici sono stati i bambini, perché hanno meno filtri e rispondevano “Perché sentono freddo”. Ed è qui che abbiamo capito di aver fatto bingo. Il bambino ha capito l’oggetto e lo scopo della campagna. Da lì poi si capiva cosa poter fare insieme. I media nazionali hanno apprezzato l’idea e hanno detto “I nuovi influencer di Progetto Arca sono Leonardo Da Vinci, Manzoni e Cristina Trivulzio”.
Tommaso: Una campagna virale sostanzialmente, ha avuto un grandissimo successo.
Giorgia: Non voluto, perché non è nata per essere virale. Voleva “soltanto” richiamare l’attenzione su quella che è la difficoltà di vivere per strada in inverno, così come lo è in estate. Voleva attirare l’attenzione. Una pura campagna di sensibilizzazione e di comunicazione. Poi è diventata virale perché la gente si fermava, faceva la foto alla statua e ci taggava.
Tommaso: Secondo te per creare campagne virali o di successo, quali possono essere gli elementi differenzianti o delle best practices da poter suggerire a chi si occupa di comunicazione nel terzo settore?
Giorgia: Ti posso rispondere citando un’altra campagna che ha avuto grande successo, che è quella di Natale. Anche lì abbiamo giocato sulla semplicità e abbiamo fatto delle foto a una macchina, ad una tenda e ad una panchina con al di sopra delle luminarie di Natale e una coperta. Il claim era “Ci sono posti in cui il Natale non è Natale”. Basta, stop. L’abbiamo messa sui social, sul sito e abbiamo fatto della cartellonistica. E, ricollegandoci al discorso che facevo prima, niente pietismo. Semplicemente tramite la bellezza dell’immagine io ti spingo a riflettere sul fatto che ci sono posti come una panchina, l’interno di una macchina o di una tenda in cui il Natale non è Natale. Mentre tutti corrono a fare acquisti o addobbano le proprie case, giustamente presi dall’euforia delle feste, ti dico che ci sono posti in cui il Natale non è Natale. Anche qua hanno giocato tanto la trasparenza, la semplicità e la volontà di coinvolgere. È stata una campagna molto apprezzata, anche in occasione dell’ultimo Festival del Fundraising che l’ha citata come esempio di campagna virale in grado di coinvolgere e toccare le giuste corde emotive.
Tommaso: Parlando di fundraising: secondo te quali sono le difficoltà maggiori che si pongono davanti alla raccolta fondi in termini di comunicazione e sensibilizzazione?
Giorgia: Qui mi ricollego alla primissima domanda che mi avevate fatto dicendovi: la bassa autostima. Anche il fundraising è una cosa assolutamente seria e uno dei maggiori rischi è proprio l’improvvisazione. Per fortuna, nel tempo si sono formati dei professionisti del settore, perché può essere un campo molto scivoloso. Capita di leggere sui giornali di procedure poco chiare e poco trasparenti, quindi per colpa di dinamiche che non vengono rispettate – in buona o cattiva fede – si scoprono truffe o impiego di fondi non nella maniera più corretta. Questo poi purtroppo ha un effetto negativo su tutti, perché è vero che magari quell’evento di cronaca riguarda una realtà, però inevitabilmente alimenta diffidenza e scetticismo nei confronti di tutto il settore.
Per tornare alla tua domanda, come ci si può difendere o come fare del buon fundraising? Anche qua, con la totale onestà e trasparenza dei dati, circondandosi di persone che siano dei professionisti del fundraising, facendo dello storytelling onesto e reale, non realistico. Ti racconto storie reali di senza dimora o di famiglie in difficoltà, te lo documento, ti faccio vedere anche foto e video che aiutano a creare un rapporto di fiducia, proprio perché tu ti devi fidare di me, al pari di un negozio. Compreresti mai qualcosa se non sei sicuro della qualità di quello che stai comprando? No. Nel momento in cui faccio fundraising, ti sto proponendo qualcosa, ti sto chiedendo un atto di fiducia. È una fiducia che si crea negli anni e che io devo meritare e poi mantenere. Sicuramente un pilastro del fundraising è fare una raccolta fondi trasparente, documentata e rendicontata. Tanto all’inizio del progetto, quanto durante e quanto dopo il progetto. Io ti devo dire cosa ho potuto fare grazie al tuo aiuto, perché è giusto che sia così. Che sia stato un euro, dieci, cento o mille, mi hai dato i tuoi soldi ed è corretto che io ti dia rendicontazione di quello che grazie a te e con te ho fatto.
Tommaso: Diciamo che nell’ultimo periodo ci sono state un po’ di storie legate agli influencer… Sull’eventuale coinvolgimento di un influencer o testimonial, voi come vi posizionate? Avete già avuto modo di collaborare con qualcuno?
Giorgia: Progetto Arca ha degli amici, non degli influencer o dei testimonial, perché sono persone che ci conoscono e da anni ci seguono. Molte volte fanno con noi le uscite di strada, vengono nelle mense, distribuiscono i pasti… Quindi c’è un reale trasporto e coinvolgimento da parte loro. Chi è dall’altra parte percepisce gli influencer che fino al giorno prima non conoscevano la tua realtà o le tue problematiche e poi si ritrovano a pubblicare dei post a riguardo, si capisce se è una cosa estemporanea e non reale o realmente sentita. Torniamo un po’ alla metafora delle parole di burro. Magari nell’immediato gratificano te in quanto utente social, però poi lasciano il tempo che trovano. È importante dare sostanza e veridicità alle relazioni che costruisci con chi ti può aiutare grazie alla propria visibilità. Non sto dicendo di no, però ci deve essere una base diversa, cioè un reale coinvolgimento da parte degli influencer.
Alessia: Giustamente prima parlavi di fundraising e di quanto sia importante la trasparenza per essere il più veritieri possibile, però è anche vero che stiamo vivendo un momento storico un po’ complesso a tutti i livelli della società. Queste difficoltà economiche credi che abbiano un impatto anche su quello che è il vostro lavoro? Perché lavorate sicuramente con una fascia di persone che a prescindere è sempre molto toccata. Quello che voglio dire è: la generosità dei donatori e la voglia di avvicinarsi a delle realtà importanti come Progetto Arca, credi siano in flessione perché il momento non è propriamente positivo? O la generosità va oltre la situazione non proprio positiva di ognuno di noi in questo momento, tra inflazioni e guerre?
Giorgia: Diciamo che il Covid prima e la guerra in Ucraina dopo non hanno per nulla aiutato, anzi, si sono annesse nuove povertà, come si suol dire. Abbiamo visto aumentare le persone che si mettono in fila nei nostri food truck per prendere un pasto caldo. Credetemi: sono persone che hanno una casa. Quello che ti colpisce è che trovi sia il senza dimora che vive sotto i portici, sia la signora vestita di tutto punto che ha una propria casa e che però magari va al food truck per prendere il pacchetto con il mangiare. Di contro, per fortuna, la generosità delle persone non è diminuita. Vediamo che rispondono sempre in maniera abbastanza propositiva alle nostre campagne di raccolta fondi o per esempio partecipano alle nostre iniziative di piazza, come ti accennavo prima. Perché probabilmente è proprio sotto gli occhi di tutti, quindi se posso partecipare prendendo una o più buste della della zuppa della bontà, perché no. Tra l’altro è un appuntamento fisso annuale, si ripete sempre a fine ottobre e anche quest’anno saremo nelle piazze di Milano il 25, 26 e 27 ottobre. Ma non solo a Milano, anche in tutte le altre città come Torino, Padova, Roma, Napoli, Ragusa. Sul nostro sito ci saranno proprio le indicazioni delle piazze dove ci si può trovare e lì, dietro una libera donazione, si possono prendere uno o più pacchetti di zuppa e contribuire concretamente.
Del resto, secondo me Progetto Arca ormai ha una sua riconoscibilità e affidabilità. In 30 anni abbiamo aiutato più di 435.000 persone, abbiamo accolto 108.000 persone nei nostri appartamenti e strutture di accoglienza, abbiamo la cascina Vita Nova dove accogliamo i senza dimora con con i loro cani o animali, perché molte volte loro non vogliono abbandonarli per strada, dato che nei dormitori o nelle altre strutture non vengono accettati gli animali. Allora anche lì abbiamo detto “Creiamo una struttura ad hoc per il compagno fedele”, perché per loro diventa un vero e proprio familiare.
Sono tutte azioni concrete. Secondo me, l’arma vincente di Progetto Arca è la concretezza degli interventi. Tu vedi materialmente la sera girare il food truck con la cucina mobile, vedi le nostre squadre e i nostri operatori che stanno lì a chiacchierare e creare una relazione con i senza dimora, distribuiscono i sacchi a pelo o gli dicono “Parliamo, fammi capire che esigenze hai e che bisogni hai”. Non è assistenzialismo. Si pongono anche le basi qualora ci sia dall’altra parte la volontà di fare un percorso insieme. E secondo me quello che ci riconoscono è proprio la concretezza degli interventi.
Alessia: Bene ricordiamo allora l’appuntamento con le prossime attività di Progetto Arca. Potete trovare maggiori informazioni sul loro sito, noi sicuramente saremo in piazza con voi. È un piccolo gesto che ha un grande impatto positivo, quindi è quello che dovremmo ricordarci sempre un po’ tutti quanti. Grazie ancora Giorgia.
Un’ultimissima domanda per te.
Tommaso: È il momento più temuto del podcast. Il nostro podcast si chiama “Una Cosa Al Volo”, quindi a ogni ospite chiediamo di dirci una cosa al volo.
Giorgia: Una Cosa Al Volo: a fine giornata, chiedersi se si è fatto tutto quello che si poteva fare o se si poteva fare di più, per chiunque. Per l’amico, per un familiare o per una persona che non conosci.
Tommaso: Grazie mille.
Alessia: Grazie dell’ascolto. Se l’episodio ti è piaciuto o se vuoi suggerirci nuovi temi da trattare, scrivici a [email protected]. Se invece vuoi riascoltare gli episodi della prima stagione ci trovi su tutte le principali piattaforme podcast. Una Cosa Al Volo è una produzione TEAM LEWIS e ti aspettiamo per il prossimo episodio.