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LEWIS

Di

TEAM LEWIS

Pubblicato il

Ottobre 7, 2022

Nel primo episodio di Una Cosa Al Volo, parliamo con Francesco Oggiano di attivismo e di come è cambiato con i social media.


Ascolta l’episodio 1

Francesco Oggiano

Digital journalist, è uno dei volti e soci di Will Italia, progetto di informazione sui social che segue fin dall’inizio. Racconta le basi del giornalismo sul suo TikTok. Ha scritto e scrive di trend digitali e di come internet sta cambiando la società su diverse testate italiane, tra cui «Vanity Fair», «Wired» e «Il Foglio». Cura Digital Journalism, newsletter con una community di migliaia di creativi digitali.

Francesco Oggiano, ospite del podcast Una Cosa Al Volo

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Come stanno cambiando i social e come sta cambiando il nostro modo di informarci e di fare attivismo? Ne parliamo oggi con Francesco Oggiano volto di Will, giornalista, e appassionato e curioso di tutto il mondo digital e di come sta cambiando ed evolvendo intorno a noi.  

Alessia: Ciao Francesco! 

Francesco: Ciao, grazie a voi!

Tommaso: Non abbiamo presentato il nostro buzzer che chiamiamo NIC acronimo di Not Interesting Content, quindi, se pensi che facciamo delle domande non adeguate, c’è da pigiare! 

Alessia: Rifacendoci al tuo libro Sociability, come i social stanno cambiando il nostro modo di informarci e fare attivismo, tu parli moltissimo di come una delle leve più importanti, se non la leva più importante, è probabilmente l’indignazione che da un lato è quella che ha permesso appunto questo propagarsi di movimenti, cancellettismi vari su Instagram dall’altro lato è stato anche un po’ il sentimento sul quale gli stessi giornalisti hanno molto cavalcato proprio in un’ottica anche di maggiori clic sui siti, copie vendute. Ecco, secondo te l’indignazione oggi ancora quanto pesa e quanto è fondamentale anche nel continuare a portare avanti determinati movimenti o anche farne nascere i nuovi? 

Francesco: Certo, allora tutti noi vogliamo la viralità delle notizie no? Che sia un politico che vuole la viralità delle notizie che rappresentano quei problemi che lui vuole risolvere, che stiamo giornalisti a caccia di clic, che sia un creator a caccia di engagement. Non sappiamo esattamente la ricetta della verità delle notizie però sappiamo alcuni ingredienti che vanno più di altri, quello che va di più e l’indignazione. Esperimenti antropologici hanno dimostrato che tra le emozioni che si contagiano più velocemente tra nessuna nell’altro c’è appunto indignazione, più della più della felicità, più della tristezza e quindi è comune che le notizie che suscitano indignazione possono diventare più virali di altre anche sui social, perché una notizia diventa virale con la condivisione. Quando tu sei Indignato e stai sui social e stai scrollando, la prima cosa che puoi fare è cliccare sul tasto condividi e ci metti anche magari il tuo commento che è una cosa naturalissima, che va benissimo, purché preservi sempre la complessità altrimenti entriamo nel campo di quello che io chiamo le Fuck news. E tu mi chiedi cosa sono le Fuck News? 

Alessia: Cosa sono queste Fuck News di cui hai anche accennato nel tuo libro? 

Francesco: Le Fuck News sono la versione più viscida delle fake news. Le fake news sono delle notizie oggettivamente inesatte, esistono da quando esiste l’uomo e sono abbastanza, non facili, però semplici da individuare perché sono oggettivamente inesatte. Per esempio, Tizio ha detto “questo”: bugia! Non l’ha mai detto e la notizia è completamente inesatta. Le Fuck News sono invece una versione un po’ più viscida, cioè, sono notizie oggettivamente esatte ma che poi quando vai a introdurre qualche dettaglio, come dire, ti scadono un po’. Quell’indignazione che ti hanno provocato scende un po’. Sono quelle notizie che quando stai scrollando il feed ti fermi perché è un titolo perfetto e dici “FUCK!”, cavolo, provocano la tua indignazione perché sono perfette per provocare la tua indignazione. Quando tu sei indignato ovviamente condividi, quindi diventano facilmente virali. Però se tu superi quei 10 secondi di indignazione e ti fermi un attimo e le approfondisci, vai a scoprire qualche dettaglio che sicuramente ti fa scemare l’indignazione 

Alessia: Non hai forse la percezione, complice anche il fatto che grosse fette della popolazione si informa tramite i social, Instagram probabilmente in primo piano ma anche TikTok, che gli attivisti, o supposti tali, stiano anche un po’ prendendo il posto dei giornalisti anche nel modo di fare informazione? 

Francesco: Assolutamente sì! Perché l’attività principale degli attivisti digitali spesso è fare divulgazione su determinati temi e fatti. Qui c’è il classico dilemma tra giornalisti attivisti, no? Mi posso fidare di un giornalista che è anche attivista? Bella domanda! Premesso che io sono giornalista. Io non sono in alcun modo attivista. Non c’è giusto o sbagliato, non c’è una valutazione in questo, la mia passione è raccontare le cose, spiegarne i motivi ecc… Non poi avere una fase successiva di proposta. Il giornalista attivista si suppone faccia divulgazione sul tema e poi abbia anche una proposta, un valore propositivo per risolvere quel problema. Che va benissimo, purché poi… io tenderei a mantenerle separate. Perché chi vuole fare il giornalista attivista può fare quello che poi gli inglesi e gli americani, che hanno una parola per tutto, chiamano “cherry picking” cioè scegliere solo determinati fatti per supportare la tua tesi e poi portare avanti le tue proposte. Certo è un fatto, e anche noi giornalisti ci dobbiamo interrogare: se ci sono tutte queste figure che stanno facendo divulgazione e stanno avendo successo, e spesso la fanno anche bene, forse noi abbiamo mancato qualcosa. C’è un bisogno a cui non siamo venuti incontro a livello di piattaforme di contenuti di temi. 

Alessia: Parlando di attivismo sui social perché si è arrivati a delegare determinati topic a delle persone che di fatto non nascono come professionisti del mondo dell’informazione? Cosa ha sbagliato secondo te l’informazione, se c’è qualcosa che ha sbagliato? 

Francesco: Mah, allora, secondo me il peccato originale innanzi tutto dell’informazione italiana è stata negli anni 2000-2010 quando iniziano a nascere le redazioni Internet nei vari giornali classici, e io lo so perché c’ero, non ero migliore di nessuno, e a quel punto nei giornali italiani gli editori creano due redazioni: la redazione cartacea rimane e la redazione Internet messa proprio in un’altra stanza. Si creano due compartimenti stagni che non si parlano, non dialogano, non si contaminano a vicenda. E quindi da una parte hai una generazione di giornalisti, più avanti con l’età, che erano bravi a fare notizie, a fare le interviste, a trovare le fonti, hanno tutti gli strumenti della professione giornalistica classica, che sono eterni, ma non sapevano usare i nuovi mezzi tecnologici, parlare nuovi linguaggi che stavano nascendo. Dall’altro avevi nell’altra stanza una generazione di giornalisti molto più giovani che sapevano parlare i nuovi linguaggi, che magari sapevano le cose tecniche: montaggio video, montaggio foto, ma magari non avevano abbastanza esperienza o competenza sulle capacità classiche del giornalista: fare un’intervista, trovare una fonte eccetera… Se tu li avessi messi nella stessa stanza e li avessi fatti collaborare avresti creato una generazione di giornalisti pazzesca che aveva sia gli strumenti tradizionali che quelli nuovi. Non li hai uniti per anni e difatti hai avuto dei giornalisti che non avevano entrambe le capacità. Aggiungici anche che gli editori all’inizio non hanno investito su Internet, intendo in soldi, talenti, collaboratori, infrastrutture. Da lì hai avuto un’occasione mancata da cui ancora ci stiamo riprendendo rispetto all’America e rispetto ad altri paesi europei, e quindi ci sta che su nuovi spazi come i social questi spazi e questi temi siano stati presi da altre figure, che siano creators e influencer, divulgatori. Molti lo fanno bene, altri lo fanno con superficialità, magari per conquistare altre metriche, per conquistare engagement. In generale per me è bellissimo che l’informazione venga fatta da tanti attori diversi (così metto in difficoltà anche tutti i classici giornalisti). Poi va sempre valutata la singola fonte se ti dà la complessità del mondo, o se ti vuole dare solo la superficialità per fare engagement.  

Alessia: Tutte quelle persone che oggi alla voce professione si definiscono “attivisti” e sono banalmente attivi magari solo sui social, possiamo veramente definirli attivisti?  

Francesco: Non lo so, cioè, nel senso, prima dei social e prima di internet l’attivismo era binario cioè: o eri attivista o non eri attivista. Io faccio sempre un esempio. Diciamo che qui noi siamo in piazza Cordusio, dovevano negli anni 60’ o 70’ rimuovere degli alberi. Ok? Per manifestare e fare attivismo contro con la rimozione degli alberi. Chi è che lo poteva fare? C’erano delle barriere alte all’ingresso, prima dei social, e quindi lo potevano fare: chi era residente qua vicino, chi sapeva la notizia, chi era fisicamente più prestante per reggere gli scontri con la polizia, chi aveva tempo per farlo, quindi le barriere all’ingresso sono molto alte e per la partecipazione e l’attivismo in sé. Adesso con i social è tutto molto diverso, è tutto molto più progressivo. Io posso interessarmi alla rimozione degli alberi in piazza Cordusio, magari leggendo una storia su Instagram, condividendo una storia, oppure promuovendo io materiali divulgativi contro la rimozione degli alberi, oppure partecipando a una petizione on-line oppure andando in piazza. Quindi vedi come è molto più progressivo. Questo indubbiamente allarga la partecipazione a delle cause e diluisce anche l’impegno dell’attivista fisico, però aumenta il valore globale dell’attivismo. Quindi non so se possono definirsi attivisti nel senso di fare un’attività fisica, dipende cosa intendiamo per attività. Perché può essere attività fisica “mi reco sul luogo a manifestare” oppure può essere “divulgo dei materiali informativi per quella causa”. Possono essere definiti attivisti digitali magari, e a ognuno poi la sua valutazione. 

Tommaso: Io avrei una domanda: tu hai parlato praticamente di due diverse generazioni di giornalisti. E da questo punto, vorrei chiederti, lato “attivismo” e “social activism”, tu pensi che ci sia una generazione che prevale sulle altre? Tu parli nel libro di una “generazione Greta”, e volevo capire un po’ secondo te qual è? Se si può effettivamente definire la GenZ come una “generazione Greta”? 

Francesco: No, non la definirei “generazione Greta”. Cioè, è un bel titolo “generazione Greta” secondo me. Da un lato abbiamo un genio della comunicazione come Greta Thunberg che ti mette nelle immagini pazzesche, iconiche che già diventano immagini del decennio: lei davanti al parlamento, lei piccolina con le trecce, l’impermeabile giallo. È ovvio che è qualcosa di notiziabile, sia a livello fotografico che a livello testuale. É una storia bellissima, lei è una delle comunicatrici più carismatiche del decennio, ed è bravissima.  Ha avuto il merito di portare all’attenzione dei temi che fino a qualche anno fa non avevano attenzione come il cambiamento climatico, come la COP26. Quindi ci sta che i media facciano il titolo “Generazione Greta”. Detto questo, io cito appunto nel libro un monologo bellissimo del comico americano Bill Mayer che va a vedere dei macro-dati, e dice: “ma ragazzi ma siamo sicuri che questa è la generazione Greta!?”. Cioè, dire: “generazione Greta” può essere un bel titolo e Greta può essere un attore mediatico perfetto per questa generazione. Però se andiamo a vedere i dati Greta non è rappresentativa secondo me di questa generazione. Greta ha 13 milioni di follower su Instagram, Kim Kardashian ne ha, non so, quanti 200. Questa generazione  va a manifestare in piazza però è anche vero che a livello macro, se andiamo a guardare i macro-numeri, siamo appassionati di bitcoin, che consumano quanto 400 jet privati. Consumiamo più dei nostri genitori a livello di moda, di fast fashion, e tutto sommato abbiamo degli stili di vita, dei lifestyle e dei consumi che non sono quelli di Greta Thunberg. Quindi Greta Thunberg può essere un simbolo di qualcosa che sta nascendo, di un nuovo movimento, ma non direi che è la persona più rappresentativa di questa generazione, senza giudizio morale, perché io sono un consumista, un capitalista eccetera. 

Tommaso: Tralasciando i creator e gli influencer, le persone comuni vogliono essere coinvolte dal punto di vista dell’attivismo per un’altra forma di solidarietà che può essere quella “morale”, per la quale si sentono in dovere di fare attivismo per non essere tagliati fuori da certi contesti o per non essere discriminati a loro volta perché non fanno una determinata mossa, perché non mostrano che sicuramente sono d’accordo con te? 

Francesco: Dici un po’ il tormentone della solidarietà, forse l’ho visto durante la guerra in Ucraina quando è scoppiato l’intervento in Ucraina è come se chiunque si fosse sentito in obbligo di parlare di quella cosa, di mostrare la solidarietà al popolo ucraino. Era quasi una cosa identitaria, se sei sui social ti senti quasi obbligato a parlare di quel tema di cui stanno parlando tutti perché sui social funziona tutto a ondate. Cioè, ci sono quei cicli di notizie, magari una crisi internazionale o una crisi economica che durano quella settimana, 10 giorni, in cui tutti devono parlare di quello e poi non se ne parla più. Se vai a vedere la curva delle ricerche su Google sull’Afghanistan nel 15 agosto 2021 ha un picco che dura fino al 16 agosto e poi dal 17 agosto non se ne torna più a parlare. Infatti, dei talebani in Afghanistan non se ne parla più, eppure lo hanno riconquistato l’Afghanistan. Anche della guerra Ucraina dopo 10 giorni, non so, non è che se n’è parlato tantissimo. E durante quei giorni c’è quasi una un senso di inadeguatezza se non si parla in Ucraina, addirittura c’erano dei casi particolari di alcune star che giustamente, legittimamente, in quei giorni erano le vacanze alle Maldive, volevano postare le foto di loro alle Maldive, Ma si sentivano inadeguati a postarle senza una caption di solidarietà per l’Ucraina. Allora vedevi le foto del mare delle Maldive con la caption “pensando all’Ucraina”, anche sentita, per carità, però suonava un po’ come forzata. Secondo me il problema non deve porsi assolutamente, prima perché è come dire, ognuno ha le sue preoccupazioni e le sue passioni. A me può anche legittimamente non fregarmene niente della guerra in Ucraina e nessuno deve venire a dirmi di cosa mi devo preoccupare. Quello avviene appunto solo nelle dittature, la libertà contempla anche la libertà di fregarsene di alcuni temi, senza sentirsi inadeguati. Secondo perché parlare della Ucraina non significa per forza c’è postare una cosa sull’Ucraina. E viceversa preoccuparsi dell’Ucraina non significa per forza postare qualcosa sui social. Terzo, anche ora ci sono 50-60 conflitti nel mondo, le persone muoiono ovunque e ci sono tragedie in tutto il mondo. Quindi il fatto che stiamo postando dell’Ucraina non significa necessariamente che ci preoccupiamo delle persone. Altrimenti ogni giorno dovremmo postare dei conflitti e delle persone nel mondo. Direi veramente “scialla” da questo punto di vista. 

Alessia: Ricollegandoci un po’ questo discorso di come molto spesso ti senti un po’ anche in obbligo di dover seguire queste grandi ondate emotive, per i quali siamo comunque subissati sui social, effettivamente mi ricordo di come io mi sia sentita molto in dubbio se postare o meno quel famoso riquadro nero quando esplose “Black Life Matters”. E ci sono stati dei giorni in cui tutte le persone che conoscevo, anche persone che non erano mai state così particolarmente vicine o interessate al tema degli afroamericani della comunità Black americana, hanno iniziato a postare il riquadro. E mi sono chiesta più volte: “Ma lo devo fare? E se lo faccio è per moda, e se non lo facessi potrei chiedermi eh però perché non l’hai postato?”. Ecco il problema, forse anche un po’ dell’attivismo, passami il termine “da cancelletto”, non è forse che non si riesce mai a far veramente passare quanto sono importanti determinati messaggi, a volte sembra che ci si riduca tutto un po’ a un trend, una moda del momento. Non è forse anche questo un po’ la forza ma anche il limite stesso dell’attivismo on-line? 

Francesco: Sì, non so neanche quello se chiamarlo attivismo. Cioè, io una delle domande che mi faccio per valutare la forza di un messaggio è: ma trovo qualcuno in disaccordo? Cioè se un messaggio trova chiunque in accordo, tutto sommato sarà un messaggio positivo, però non so quanto sia da attivismo, perché non presuppone nessuna attività. Se io sono un creator o un brand e dico “Abbasso il razzismo”, è un messaggio positivo, perfetto, però non è che mi smuove qualcosa intellettualmente. Tutti noi più o meno esplicitamente siamo contro il razzismo, quindi non sta spostando chissà quale percezione della realtà, non mi sta mettendo in difficoltà, non mi sta stimolando intellettualmente. E allora a volte mi viene il dubbio, stai solo facendo pubbliche relazioni digitali? Che va benissimo, però è un’altra cosa. Non è attivismo, quando i brand fanno delle misure per l’empowerment femminile in Occidente, a me va benissimo. È bello, perfetto, però poi mi chiedo: ma lo sta facendo anche nelle filiali orientali? Perché se non lo stai facendo nelle tue filiali orientali è un po’ diverso. Infatti, una frase bellissima sul brand activism, non mi ricordo chi l’ha detta, era: “I brand sono bravissimi a supportare lo stato delle cose esistenti”.  Cioè, non sono motori del cambiamento, perché il cambiamento viene sempre dagli attivisti, dai veri eroi. I brand supportano la situazione che già c’è, se in occidente le donne sono nel consiglio di amministrazione i brand dicono: ok supportiamo le donne del consiglio di amministrazione. Se non sono nel consiglio di amministrazione dicono ok ci adeguiamo al fatto che non sono nel consiglio amministrazione. Per questo credo che spesso il termine brand activism sia un po’ abusato. 

Tommaso: Mi è venuta in mente una cosa quando hai parlato di “attivismo da cancelletto”. Mi è venuto in mente l’hashtag, che comunque per forza di cose fra #MeToo, #BlackLivesMatter, #FridaysForFuture, hanno aiutato un sacco anche a dare risonanza al movimento e all’attivismo in sé. Ma secondo te l’hashtag rimarrà anche per il futuro? Aiuterà a dare risonanza?  

Francesco: È una bella domanda, non lo so perché dipenderà dall’evoluzione tecnologica dei social, se terranno l’hashtag, però secondo me, il senso dell’hashtag è più di contenuto che di valore tecnico dell’hashtag. Cioè, io faccio un movimento e trovo lo slogan perfetto: #MeToo, #BlackLivesMatter sono degli slogan perfetti, comprensibili perché usano parole inglesi, molto facili e che danno il senso di piattaforma fondamentalmente. Ecco, l’hashtag inteso come piattaforma. Ovvero non sono io che ho un movimento centralizzato, verticale, gerarchico, ma un hashtag, uno slogan che tu puoi usare nel mondo per indicare quei determinati valori portare avanti le tue battaglie, anche se sono lontane dalla battaglia originaria. #BlackLivesMatter ha fatto un hashtag perfetto, che significa, che incorpora determinati valori che può essere usato dal Brasile, al Nicaragua, all’Italia per parlare con il razzismo contro anche la lotta di classe, se vogliamo. Cioè, è perfetto perché comprende tante cose e può essere usato da diverse persone, quindi in questo senso si fa piattaforma in movimento. Quando il movimento si fa piattaforma diventa virale e scalabile se vogliamo. 

Alessia: Per tornare sull’attivismo a 360°, come oggi le grandi battaglie sui temi sociali e quant’altro si sono spostate su una dimensione molto Digital perché sicuramente, come racconti anche tu anche nel libro, e come raccontavano i founder di Black Lives Matter, i canali social hanno amplificato e quindi hanno dato una spinta importante al propagarsi di determinati messaggi che li hanno aiutati anche nell’aggregarsi e nell’organizzarsi. Lo raccontavano anche i ragazzi di Fridays For Future. La domanda però è: secondo te si ritornerà una dimensione in cui lo scendere in piazza tornerà a essere un elemento cardine e primario? Ancor prima della rete social, sarà la rete fisica quella che farà un po’ la differenza? Perché oggi la grande critica che viene anche mossa è che non si scende più in piazza. È vero ci sono gli scioperi e le manifestazioni il venerdì, però di base in piazza non si scende più come durante gli anni di mobilitazione delle masse. 

Francesco: Sicuramente i grandi movimenti sono quelli che uniscono entrambe le cose, che uniscono il social con l’incontro reale, spesso si parla di on-life. Così è stato per Black Lives Matter e per il Me Too; quindi, i grandi movimenti saranno quelli che riusciranno a unire l’attivismo on-line e quello su piazza. Ti potrei dire che scenderemo meno in piazza, però poi ti dico che quando lo faremo forse sarà ancora più forte come messaggio, no? Cioè quando un movimento riuscirà a prendere veramente la piazza e sarà anche on-line sarà ancora molto più potente degli altri movimenti passati. 

Alessia: Oltreoceano, negli Stati Uniti, le grandi redazioni dei quotidiani più noti hanno capito e intercettato quella che può essere la potenza dei social. Addirittura, il New York Times, se non sbaglio, ha proprio un responsabile contenuti Instagram, un responsabile newsletter, podcast, ben prima che ci fosse questa grande ondata di questi strumenti di comunicazione. Qui in Italia la sensazione è che tutto arrivi molto tardi e si arranchi moltissimo. Questo ritardo effettivamente non è poi quello che ha penalizzato e continua a penalizzare anche un po’ l’informazione oggi e che poi magari spinge anche le generazioni più giovani a cercare, come ci siamo detti all’inizio, contenuti e informazioni da altre fonti?  

Francesco: Si, stiamo recuperando un pochino  

Alessia: Tu sei un esempio abbastanza lampante perché sei uno dei volti di quello che ad oggi è uno dei progetti sicuramente più innovativi sbarcati su Instagram. Will e altri progetti affini, li ho sempre un po’ percepiti come una risposta a qualcosa che mancava dei nostri giornali, correggimi se sbaglio. Per questo anche voi avete intercettato qualcosa che mancava, un modo di comunicare diverso e giustamente vi siete posti un po’ come apripista. Secondo te l’informazione italiana può recuperare questo gap? 

Francesco: Si secondo me lo sta già recuperando, nel senso, forse la domanda che mancava a volte era di partire dalle basi, su alcuni determinati temi. Il quotidiano può seguire ogni tappa e ogni vicenda di un singolo tema. Però al lettore un po’ più distratto che non apre ogni giorno il quotidiano mancano alcune puntate, allora è un po’ come Beautiful, se ti perdi una puntata non riesci a seguire tutto il filo. E quindi sono nate delle realtà di comunicazione o dei divulgatori e dei creator che provano a ripartire dall’inizio e raccontarti un po’ le fondamenta di alcuni temi e hanno trovato terreno fertile tra il pubblico perché hanno intercettato quella domanda di capire dalle basi dei sistemi, dei temi, degli scenari. 

Alessia: Per chiudere un po’ la parte sul mondo dell’informazione, che poi è una cosa che noi per primi che lavoriamo con i media continuiamo a domandarci. Ed è la domanda più antica del mondo, che forse ti avranno fatto: qual è il secondo te il futuro dei giornali in Italia? Il cosiddetto cartaceo, il quotidiano continuerà ad esistere? La percezione anche lì è che una parte ti dica che effettivamente ormai stiamo andando verso una dimensione talmente digitale, dove il cartaceo in sé andrà via via scomparendo, e anche le stesse redazioni, in cui tu mi insegni stanno tagliando notevolmente. Dall’altra parte, invece, c’è chi ti dice che il cartaceo comunque continua ad avere quella autorevolezza e quella capacità di approfondire i temi che il digitale non ha e quindi di base non potrà mai scomparire. Ma la verità qual è? 

Francesco: Non lo so! Spero che i giornali cartacei durino per sempre. Personalmente, prima si riusciva a distinguere i giornali quasi soltanto a occhi chiusi dal profumo. Adoro il profumo dei giornali. Il grado di approfondimento che trovi all’interno di una copia di un giornale equivale a 50 pagine Instagram. I giornali italiani sono fatti bene, trovi una qualità è una quantità di informazioni nelle 60 pagine del Corriere della Sera o di Repubblica che difficilmente trovi altrove. Sono ovviamente in crisi, credo che ne rimarranno pochi e saranno dei giornali più fini, con meno pagine perché comunque molte notizie saranno trasferite giustamente solo sul digitale e saranno di altissima qualità. Costeranno tantissimo e saranno comprati da un pubblico molto motivato che vorrà sapere veramente gli scoop, le analisi, le inchieste per prevedere il futuro anche a livello professionale. Diventeranno quasi degli status symbol, chi li compra sarà molto più informato in media degli altri. 

Alessia: Per chiudere il cerchio, abbiamo iniziato chiedendoci un po’ dell’attivismo che oggi si sposta dalle piazze al digitale e di questo propagarsi di profili che si definiscono in prima battuta “attivisti”. Secondo te oggi l’attivista è paragonabile a fare un lavoro? È una professione? Si può essere attivisti e fare quello nella vita o no? 

Francesco: Lavoro inteso ti pagano per fare quella cosa là e ci campi di rendita? Secondo me si, potrebbe esserlo, sono due cose che possono combaciare come andare separate. Perché no, anzi a me piacerebbe un attivista pagato. Cioè mi fiderei quasi di più di uno che ci vuole guadagnare e dice “io faccio questo perché mi paga questa tale organizzazione”, quindi, in maniera trasparente ti dice quali sono i suoi redditi, non qual è la cifra ma chi lo paga, che lo ha pagato, con quale missione, perché. Così posso anche valutarlo in maniera più meritocratica. Dirò che questo vale tanto, viene pagato da questo, ha questa missione, quest’obiettivo e questi KPI. Mi auguro sempre più un rapporto laico con i soldi, come magari quello che ci può essere in altre nazioni in cui si parla di lobbying in maniera ancora più trasparente. Se c’è un’organizzazione sul surriscaldamento climatico che vuole pagare dei suoi dirigenti per fare gli attivisti, perché no?  

Alessia: Un paio di profili da consigliare che secondo te effettivamente incarnano al meglio la figura delle attività così come un po’ ce l’hai raccontata? 

Francesco: NIIIIIIIIIIC! 

No, no, non ce l’ho, ci devo pensare… Ve lo dirò dopo in un post!  

Tommaso: Chiudiamo con un ultimo elemento del nostro format, vogliamo chiederti un’ultima cosa al volo, una cosa veloce. E mi sono un po’ informato sul tuo sito e ho scoperto che sai parlare al contrario! Quindi, a prescindere dal topic e tutto quello che siamo detti, dicci una cosa al volo al contrario!  

Francesco: Atareihccaihc atseuq id eizarg 

Tommaso: Grazie per essere stato con noi Francesco, è stato un piacere. 

Grazie di essere stati con noi una cosa al volo è una produzione Team Lewis con la regia di Laura e Luca, il coordinamento editoriale di Maria Pia e le voci di Alessia e Tommaso. 

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