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LEWIS

Di

TEAM LEWIS

Pubblicato il

Ottobre 21, 2022

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Nel secondo episodio di Una Cosa Al Volo, parliamo con Donata Columbro di dati, in che modo raccontarli e come vengono usati per raccontare storie.


Ascolta l’episodio 2

Donata Columbro

Donata Columbro è giornalista, formatrice e scrittrice. Collabora con «L’Essenziale» e «La Stampa» per cui cura la rubrica Data Storie. Insegna Data Visualization all’università Iulm, tiene un corso di Data Humanism per la Scuola Holden ed è tra i docenti del Master di Giornalismo di Torino. Nel 2021 ha pubblicato il libro Ti Spiego il Dato (Quinto Quarto ed.).

Donata Columbro, ospite del podcast Una Cosa Al Volo

 

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Alessia: I dati sono intorno a noi e fanno parte della nostra storia, ma come li possiamo leggere e come li possiamo interpretare anche alla luce di quella che è la naturale evoluzione dell’attualità? Ne parliamo con Donata Columbro, giornalista e comunicatrice esperta di dati. Ciao Donata.

Donata: Ciao, grazie dell’invito.

Tommaso: Io volevo farti una domanda molto secca. Leggendo il tuo libro “Ti spiego il dato”, che è un po’ una cassetta degli attrezzi, dai un po’ di aiuti, di tips su come interpretare i dati e su come i dati possono raccontare anche le storie, a me ha colpito sin dall’inizio, sin dall’introduzione, il fatto che tu ti rivolga a una lettrice. C’è una scelta particolare su questa cosa?

Donata: Per me è stato normale rivolgermi al pubblico femminile o parlare a una lettrice immaginaria perché è così che mi aspetto di leggere informazioni, libri, notizie essendo io donna e trovando invece tantissimi riferimenti, soprattutto rispetto alle professioni che si occupano di dati, spesso, se non sempre, le professioni o anche le informazioni declinate al maschile.

In realtà nel corso del libro questa cosa cambia: non ci rivolgiamo alla lettrice, ma una volta alla lettrice e una volta ai lettori quindi in realtà è qualcosa che abbiamo deciso di inserire, un po’ per spiazzare effettivamente nella lettura e qualcuno lo nota. Anzi, io stessa l’avevo scordato e mi viene ricordato alle presentazioni perché effettivamente, quando qualcosa diventa normale, il mondo non lo ritiene neanche più un aspetto da sottolineare. Chi effettivamente, forse come tu hai potuto notare, trova in giro sempre frasi rivolte a sé, in accordanza al proprio genere, lo nota quando questo non succede più ed è qualcosa che noi, persone che si riconoscono nel genere femminile, abbiamo iniziato a notare, che il maschile di default, il maschile universale, era qualcosa che poteva essere escludente. Quando questo cambia, quindi quando alcuni giornali e riviste, per esempio Internazionale lo fa nelle pubblicità utilizzando il femminile universale, parla alle abbonate.

Di recente Jonathan Zenti ha scritto un libro, è autore di tanti podcast, e spiega la scelta sua e della casa editrice di parlare alle persone lettrici e quindi di usare il femminile. Secondo me non è uno standard che esiste, non è una protesta inutile, ma qualcosa, appunto, che può far pensare. Ogni deviazione dallo standard, per tornare ai dati e alla statistica, più che essere messa da parte può effettivamente far notare qualcosa che prima era nascosto.

Tommaso: Perché effettivamente tu ti definisci una data feminist. Puoi spiegarci un po’ questa figura?

Donata: Sì. Allora, il data feminism è un modo per vedere la data science e tutto quello che ha a che fare con i dati con una lente femminista intersezionale. Il femminismo intersezionale dice che nella società ci sono delle disuguaglianze, delle discriminazioni e che queste in qualche modo, proprio come negli insiemi matematici, si intersecano e si uniscono quanto più la persona è sottorappresentata o discriminata.

Quindi, se una persona crea discriminazioni nei confronti delle donne è depravata, ma se parliamo di una donna non bianca disabile, le discriminazioni si accumulano in qualche modo e questo è il femminismo intersezionale. Quindi non guarda solo ai diritti delle donne, ma guarda proprio al fatto che le discriminazioni portate avanti nella nostra società possono aumentare e possono peggiorare la condizione di persone che si trovano alla base della piramide del privilegio. In cima ci sono gli uomini bianchi cisgender, subito dopo ci sono però le donne bianche cisgender, in realtà, quindi siamo subito dopo. Le discriminazioni aumentano quando si parla anche di reddito, quindi non solo di sesso, di genere. Una persona bianca con un reddito basso scende sotto la donna, in molti casi non in tutti, quindi è proprio questa intersezionalità che fa capire bene poi che cos’è il femminismo dei dati, che si occupa quindi di come i dati vengono utilizzati per perpetrare queste discriminazioni e disuguaglianze nella società e soprattutto insegna a farsi delle domande fondamentali: chi sta raccogliendo i dati, qual è la comunità che può essere svantaggiata o discriminata da questa raccolta dati e, invece, chi ne sarà avvantaggiato. Si occupa di potere e in questo modo, secondo me, è utile anche leggere i dati, non solo costruirli e fare giornalismo, ma può essere una lente anche per qualsiasi cittadino o cittadina.

Alessia: È interessante questo concetto perché quando si parla di femminismo in qualche modo non viene sempre automaticamente associato a un dato, nella sua natura intrinseca, come una realtà appunto neutrale, non con un peso o meno a livello di gender. Invece effettivamente ci racconti di come c’è un problema effettivo che poi prende anche il nome di gender data gap, fondamentalmente.

Donata: Secondo me, la percezione del dato e della statistica come qualcosa di rigoroso, neutro, ce l’hanno tutti e tutte le persone, anche quelle che si occupano di dati. Anche chi si occupa di scienza, è un bias che abbiamo su questo, quindi un pregiudizio, un’idea preconcetta che abbiamo sul fatto che se c’è un numero in qualche modo siamo al riparo da opinioni o da bias e pregiudizi.

In realtà quel numero è stato costruito da qualcuno, non c’è in natura. La mancata conoscenza di come si arriva alla costruzione di quel dato o, appunto, del numero finale della statistica, è quella che ci porta a pensare che sia neutrale. Quindi, dire che il dato solo perché un numero sia neutrale no, sono come le parole, non c’è neutralità.

Quando si parla di gap del dato, di gender data gap, si parla di una mancanza e quindi di una mancanza a monte anche della raccolta di questo dato. È una scelta, quindi una scelta non neutrale, che viene fatta nel prendere in considerazione i dati che riguardano le donne o le minoranze, per esempio. In gergo si parla di dati disaggregati, quindi un dato che viene scorporato in tutte le sue componenti. Può essere quello dell’età, per esempio, oppure quello del sesso o del genere, che è ancora un dato in più. Il fatto di non sapere quante persone si riconoscono in un genere diverso da quello maschile o femmina può essere importante per capire quanto una legge che le protegga sia utile nel nostro Paese. Se non c’è quel dato non possiamo neanche portare avanti politiche contro la discriminazione di queste persone, quindi non c’è niente di neutrale rispetto a quello che riguarda il mondo dei dati.

Alessia: Mi piace che sei bella carica, oserei dire, va benissimo.

Donata: Va bene?

Alessia: Riprendiamo un po’ il discorso che facevi in relazione al fatto che il dato in realtà, in base a come viene raccolto e poi raccontato, di fatto racconta una storia non necessariamente sempre uguale e mi ricollego al fatto dell’uso dei dati nel mondo dell’informazione. Come questi, fondamentalmente, vengono in qualche modo, passami il termine un po’ forte, strumentalizzati al fine di veicolare un messaggio piuttosto che un altro.

Oggi, però, si assiste sempre di più a un passaggio di informazione verso il cosiddetto data journalism che, quindi, tende invece a raccontare le notizie proprio partendo dai dati nudi e crudi. Ti vedo che sei già perplessa.

Donata: Non esistono i dati nudi e crudi.

Alessia: Ecco, perché non esistono?

Donata: In inglese vengono chiamati row data. C’è un bellissimo libro che si chiama proprio Row Data is an Oxymoron, cioè è un ossimoro parlare di dati grezzi o nudi e crudi perché, appunto, il dato è costruito. Ogni volta che usiamo un dato per portare, diciamo un’idea o informazione, in qualche modo questo dato arriva da un contesto, ma anche la strumentazione che usiamo per portare quel dato ha in sé un’incertezza, la scelta che abbiamo fatto per fare quel calcolo ne ha escluso un’altra e quindi in qualche modo può raccontare una storia o un’altra. Quindi non voglio veicolare per forza una tesi o fare propaganda, ma già la domanda che mi faccio mi porta a raccontare un certo tipo di storie. Un esempio molto vincente da questo punto di vista è ProPublica, negli Stati Uniti, che è una news media indipendente che fa molto lavoro sui dati facendosi aiutare dalle persone, dai cittadini e dalle cittadine, che sono chiamati a rispondere magari a domande sul lavoro sottopagato, sui tirocini, hanno fatto delle bellissime inchieste su questo, e quindi provano a rispondere raccogliendo dati dal basso. Secondo me in molti ambiti è difficile mantenere questo mito dell’imparzialità, della neutralità. Siamo esseri umani e quindi mettiamo le nostre idee, la nostra origine, il nostro pensiero in tutto quello che facciamo. Secondo me la cosa importante è dichiarare come si è arrivati a quel risultato, come è stato raccolto il dato, elencare i difetti, le problematicità e l’incertezza. In questo modo posso anche mettere a disposizione delle persone che leggono uno strumento, magari per la verifica di quel dato. Questo secondo me è importantissimo. Io sono, magari ne parleremo ancora, per il movimento dei dati aperti e credo che il movimento dei dati aperti sia un’occasione per aumentare le possibilità anche di capacità di lettura dei dati delle persone.

Tommaso: Io volevo agganciarmi alla sua domanda dei row data più che altro per presentarti NIC, che è il nostro buzzer, perché avresti potuto usarlo perché NIC è semplicemente una sigla che sta per Not Interesting Content. Quindi ogni volta che magari senti un “row data” o una domanda che magari può essere stupida, ti consigliamo di premerlo e qui magari potresti premerlo con me per una domanda che ti faccio adesso: mi ricordo che hai scritto che il dato non è al 100% veridicità, cioè può anche essere non vero; quindi, deve essere in un certo senso contestualizzato?

Donata: Il dato, come qualsiasi pezzo di informazione, può essere manipolato. Parlando di situazioni corporate, il dato manipolato può essere l’azienda che fornisce un bilancio falsificato e quello è un reato, quindi, stiamo parlando di situazioni estreme, diciamo. Quelle meno estreme, che sono quelle che effettivamente succedono di più, sono quelle in cui io racconto un dato che è un pezzo di verità, per esempio prendo solo gli ultimi 10 anni perché sono quelli che mi fanno comodo e nascondo i 50 anni precedenti, perché in realtà mi facevano vedere qualcosa, come un aumento di un fenomeno che oggi do’ per morto ma che invece no, c’era. Oppure dico che i dati sono solo fino al 2018, quando in realtà dal 2018 ad oggi sono quattro anni e sono dati che effettivamente possono far vedere qualcosa di diverso. Quindi posso giocare sulla linea temporale e in questo modo faccio cherry picking, scelgo le cose migliori a livello di tempo, di periodo storico, oppure posso farlo dando un solo dato e dicendo che è il dato che rappresenta questa situazione. In quel modo lì, quel dato acquisisce molto potere perché diventa quel numero che descrive la narrativa di tutto quel fenomeno ed è molto difficile scardinarlo perché si fa fact checking e si dice che non sia vero oppure perché poi non è un dato reale, ma riguarda solo una parte della situazione o non vuol dire nulla. Quindi ci sono tante domande che possiamo farci davanti a un dato per capire come è stato usato. Quindi, è vero che il dato non è neutro, ma in qualche modo ci sono modalità di presentazione di racconto che sono almeno oneste o dichiarate nella loro presentazione.

Alessia: Tu hai giustamente menzionato prima il fenomeno del cherry picking, magari ti chiedo di raccontare un pochino di più.

Donata: È una cosa che si fa e che facciamo tutti quando raccontiamo qualcosa che ci riguarda: vogliamo presentare una tesi a nostro favore e prendiamo le cose che effettivamente sostengono quella tesi o quell’argomentazione. Quando faccio vedere i miei ascolti su Spotify, nelle slides che uso per far vedere i dati, tengo il mio Spotify Wrap del 2017 perché era quello pre-figli; quindi, il mio cherry picking va molto a mio favore perché se faccio vedere il Wrap degli anni successivi i miei gusti musicali declinano. Quindi scelgo il dato migliore che mi mette in lustro. Il fatto che le persone siano sospettose, dicono “ok, allora non mi fido più di niente”. Se anche il dato è costruito, c’è sospetto. L’abbiamo visto in questi anni di pandemia: ogni cosa che veniva detta veniva smontata. Un po’ riguarda, secondo me, proprio questa mancata attenzione rispetto a come è fatto quel dato perché si da un po’ per scontato che il dato c’è, devono darci dati, però il dato non c’è. Ed è effettivamente vero che anche un ministero lo deve costruire, lo deve raccogliere.

Se ci fosse consapevolezza del viaggio che fa questo dato per arrivare fino a noi, diventerebbe più accessibile il comprendere che anche il complottista che ti spara qualsiasi altro numero deve spiegarti come ha fatto ad arrivare fino lì. Il movimento dei dati aperti, tornando su questo, quando la comunità scientifica dice “non apriamo i dati perché qui chiunque si può mettere a fare i grafici”, ma ben venga perché poi più i dati ci sono, quelli raccolti, il dato grezzo può essere rielaborato da altri e controllato, verificato da chi magari ha un’esperienza o una conoscenza di dominio e quindi può aiutare a verificarlo. Più dati ci sono e più sono raccolti sotto un processo verificato, più c’è la possibilità di aumentare il controllo e anche la conoscenza, secondo me, di verifica di quel dato.

Alessia: Parliamo anche nella forma, o meglio, come viene presentato il dato poi al pubblico che lo deve in qualche modo ricevere?

Donata: Quello che apprezzo dei più alti livelli di data journalism, che per ora sono nel mondo anglosassone, è proprio questa intenzione di far capire alle persone quello che c’è dietro al dato, nel senso di “vogliamo che vi arrivi la notizia” quindi la mettiamo con il testo, con le mappe, con i grafici, con le tabelle, spieghiamo come lo abbiamo raccolto, c’è tutto dentro.

Tommaso: Io avrei una domanda abbastanza secca, poi non so se Ale vuole poi approfondire in qualche altro modo.

Donata: Posso rispondere con il buzz?

Tommaso: Dal punto di vista corporate, quindi dal punto di vista di tutti i dati che noi consumatori forniamo alle aziende, ormai galoppa questa concezione molto negativa di fornire dati alle aziende attraverso i cookie o attraverso tutto quello che facciamo on line. La mia domanda riguarda il futuro di questa concezione: c’è da aver paura oppure magari ci possono essere dei risvolti positivi, dei vantaggi su questa cosa, su questo fenomeno?

Donata: “Aver paura” in che senso?

Tommaso: Il fatto che comunque possano essere manipolati questi dati. Che possono essere usati, dal punto di vista nostro, proprio dei cittadini.

Donata: Si. Non vogliono spaventare, ma tenere un po’ gli occhi aperti sul fatto che in Europa abbiamo il regolamento della protezione dei dati personali, che è molto avanzato rispetto a quello che succede fuori dall’Europa, quindi finché noi abbiamo questo regolamento, abbiamo delle leggi anche molto avanzate su questo, siamo abbastanza protetti, ma negli Stati Uniti le cose sono diverse, la regolamentazione va a vantaggio sia delle aziende, ma anche eventualmente dello Stato di quando ha bisogno dei dati nei casi di reato e ci sono dei dati che devono essere ceduti dalle aziende per verificare eventualmente che cosa ha fatto quella persona in quel determinato momento. C’è molta più libertà, tranquillità ed è permesso alle aziende di dare quei dati al governo. Anzi, molte applicazioni lo scrivono proprio nei termini di servizio, cioè che quei dati possono essere utilizzati se la legge richiede effettivamente che vengano usati. Pensiamo all’esempio più recente delle app per tenere traccia del ciclo mestruale: nel momento in cui diventa negato l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza, quelli sono dati sensibili, eventualmente in situazioni di sospetto. Le autorità possono richiedere quei dati per capire se la persona era incinta davvero o meno. Quindi siamo in una situazione in cui in Europa questo non è possibile, non solo perché per ora il diritto è garantito, ma perché la protezione dei dati ci garantisce che questi nostri dati non possano mai essere utilizzati in questo modo. Se vengono meno le leggi, e qui dobbiamo essere noi come cittadini e cittadine attenti a vigilare che le cose vengono mantenute tali perché per ora le cose vanno bene. Quindi, più che paura, diciamo che a livello internazionale non si sta andando verso una maggiore protezione. Cioè, da una parte sì con regolamentazioni che vietano all’azienda utilizzare dati di terze parti e quindi effettivamente ora chi fa marketing online si trova in difficoltà da quel punto di vista. Dall’altra, però, c’è un sempre maggior utilizzo dei dati per la sorveglianza. Quindi ok, abbiamo capito che i dati per il marketing hanno molta attenzione, ma forse ci perdiamo anche tutto il resto.

Alessia: Stavamo parlando di comunicazione aziendale, in questo caso visto dai consumatori. Invece vedendola dal punto delle aziende, ti parlo anche un po’ del nostro punto di vista come PR che quindi in qualche modo siamo chiamati a raccontare le aziende ai media, c’è sempre un po’ una sorta di timore da parte delle aziende di divulgare dati. C’è sempre questo spauracchio che il dato è meglio non renderlo pubblico, perché? Al di là del fatto che possa poi essere più o meno veritiero, come abbiamo detto, però perché effettivamente c’è ancora questa sorta di timore nel comunicare determinate informazioni con i dati.

Donata: Secondo me da parte delle aziende c’è sempre stata questa cultura del “non devo raccontare troppo, se si scoprono cose” e magari su alcuni ambiti va bene che sia così. Forse quello che suggerirei al mondo corporate, alle aziende, è quello di guardare le cose da un altro punto di vista. Si tratta di enti che hanno l’esperienza di dominio, magari su certi settori, e quindi sarebbe bello che facessero anche loro advocacy e lobby per la raccolta dati su quei settori e dire “noi, con la nostra esperienza, con il nostro lavoro, abbiamo raccolto dati su questo”. Penso ad aziende che si occupano di rete idrica e quindi hanno una conoscenza sullo spreco dell’acqua, per esempio. Quindi, avere una comunicazione generale che non deve per forza far uscire i propri dati, forse sono anche quelli meno interessanti, ma magari c’è un expertise di raccolta dati che può essere messa a servizio per uno storytelling che va a vedere il contesto.

Alessia: Forse manca anche la figura che possa in qualche modo far crescere questa consapevolezza all’interno delle aziende o le figure ci sono, ma non sono valorizzate e utilizzate all’interno delle singole realtà?

Donata: Di solito ci sono gli unicorni in azienda che sanno lavorare bene i dati e spingono, ma come in tutti i settori finché magari non c’è una consulenza esterna che ti fa vedere le cose, non le vedi. Sta migliorando, comunque, io vedo che c’è attenzione molto di più rispetto, appunto, al dato rispetto a cosa possiamo raccontare, all’utilizzo dei grafici anche solo nella promozione, nei materiali pubblicitari. Le aziende più illuminate sono quelle che coinvolgono tutti i dipendenti anche nella alfabetizzazione dati, forse si può partire da lì. L’alfabetizzazione può partire dalle aziende più che dal pubblico, magari sì nelle scuole, ma che potere può avere l’azienda nel fare formazione al proprio interno e quindi far sì che questo non sia solo del reparto analytics, ma sia per tutti? Questo sarebbe, per esempio, interessante da portare avanti come idea.

Alessia: La quarta di copertina nel tuo libro ha una frase molto secca e molto chiara: “Arrenditi, i dati sono ovunque”, che sembra un po’ una minaccia, ma magari non necessariamente così è. Proprio perché i dati sono intorno a noi e in qualche modo noi nasciamo e già produciamo dati, in realtà, anche solo come singoli esseri umani, si parla oggi molto di data humanism. Quindi questo umanesimo di dati, la capacità che ha un dato di poter raccontare ed essere esso stesso una storia. Secondo te, è questo è il futuro verso il quale stiamo andando quando parliamo di gestione dei dati e dove ci può condurre il viaggio di cui parlavi anche tu all’inizio del dato? Come si fa ad arrivare a una persona?

Donata: Secondo me sì, stiamo andando verso quella direzione perché la cultura del dato sta cambiando. Abbiamo avuto l’esplosione dei big data, c’erano i fan dei big data e ovunque si parlava solo di quello, adesso questa parola non viene più usata tantissimo è stata sostituita dagli algoritmi. Però questo fatto che “abbiamo i dati, tantissimi dati, capiremo tutto del mondo”. La stessa Google, aveva utilizzato i suoi trend per creare uno strumento che poteva prevedere l’influenza stagionale negli Stati Uniti. In realtà, non si poteva prevedere, era semplicemente stagionale l’influenza; quindi, le ricerche aumentavano non perché aumentava l’influenza, ma perché aumentavano le richieste di medicinali ed era dato dal periodo. Era una correlazione che effettivamente non funzionava, cioè la quantità di dati in quel caso non aveva dato delle risposte incredibili. Quindi si è un po’ smontata questa retorica dei big data che ti danno delle risposte a qualsiasi cosa e chi ha iniziato a parlare di thick data; quindi, dati che danno una densità ai fenomeni, small data, andiamo a vedere le storie dietro i dati, ha avuto sempre più riscontro.

La pandemia ci ha fatto vedere i limiti dei dati e questo è il suo bene, secondo me, cioè il dire “ok, abbiamo i dati ma non sappiamo gestire niente, non riusciamo manco a fermare una pandemia in corso con la raccolta dati” perché la raccolta dati è complicata, è costosa, servono risorse. I big data cosa sono? Sono grandi quantità di dati elaborati, processati dai computer. I dati della pandemia sono big data o sono small data? Sono grandi quantità di dati e se vediamo un Excel pieno di quei numeri non ci capiamo niente, ma come vengono raccolti? Vengono raccolti a mano se ci pensate. Vado in farmacia e faccio il tampone, è una cosa molto manuale; quindi, non è che passo su un QR-code e quello sa se io ho il covid e poi manda i dati. È una raccolta manuale in cui il viaggio dei dati è devastante perché io vado dal farmacista che segna e che si deve ricordare, magari se lo segna prima su un foglio, poi va nel sistema, ti registra, va alla ASL o gli enti territoriali di medicina del territorio e poi questi dati vanno alla Regione che poi li comunica all’ente nazionale.

Cioè, fanno un viaggio enorme. Quindi il limite del dato veramente l’abbiamo proprio vissuto sulla nostra pelle. Il sistema delle regioni che cambiava, poi l’errore ecc. Quindi ci siamo resi conto di questa cosa, Giorgia Lupi era stata tra le prime, Giorgia Lupi è un’information designer italiana che ora vive a New York ed è socia dello studio Pentagram, aveva teorizzato e si era fatta portavoce tra le prime del movimento del data humanism; quindi, dietro ogni dato c’è la storia di una persona, non è infallibile. Adesso è più chiaro questo anche tra chi lavora nel mondo dei dati e il dire “arrenditi, i dati sono ovunque” è un po’ far capire a tutti noi che siamo dati: quando camminiamo produciamo dati, finché non li raccogliamo quelli non sono dati, non è che lo sono di default. Qualcuno li deve raccogliere in qualche modo, deve decidere che è una cosa interessante da valutare, però un dato è qualsiasi cosa: può essere anche un oggetto. Per un medico il dato è una escoriazione della pelle che diventa un numero quando poi lo raccolgono e vedo che succede a tante persone e dico “ok, quante persone hanno toccato un oggetto, una pianta pericolosa?” e diventa un dato interessante che può farmi capire qualcosa su un territorio. C’è una pianta pericolosa che cresce, fa venire la dermatite. Ma il dato, appunto, è qualsiasi cosa che poi trasformato con lenti quantitative, mi può raccontare qualcosa di più di un fenomeno. E il capire questo secondo me poi ci aiuta, tutto il resto è in discesa: la lettura del grafico, della correlazione, diventa molto più semplice se percepiamo appunto che il dato non è quella cosa alla Matrix, ma può essere le ore di sonno o di mancato sonno di un neogenitore, per esempio.

Alessia: Possiamo raccontarci anche tramite i dati: se ti dovessi raccontare tu tramite un dato o più di uno, quali sarebbero?

Donata: Immaginerei un bel grafico a torta su com’è fatta la mia giornata: tot ore dedicate a…, però è molto legato forse la produttività. Come passo la mia giornata, le app me lo possono quantificare in termini di produttività: quali scuole, clienti, lavoro, cosa faccio. Tutto quello che mi fa fermare e vedere qualcosa effettivamente può essere un dato più interessante.

Proprio in questi giorni pensavo alle emozioni che provo solo in trasferta, l’essere lontano da casa, ed è qualcosa che fa parte del mio lavoro, il viaggiare, e quando la pandemia me l’ha impedito era una sofferenza . Quindi notare la sensazione che ho, cosa vuol dire la felicità, l’incontro, rivedere le persone che sono amiche, che vivono in altri posti e gli stimoli che posso avere dall’incontro dal vivo con le persone. Quindi il dato che comincerei a raccogliere per raccontarmi riguarda appunto le emozioni forse legate al dove vado e le persone che incontro.

Tommaso: Per chiudere il podcast, noi facciamo sempre una domanda, perché come sai il nostro podcast si chiama “Una cosa al volo”, quindi l’ultima domanda che facciamo è: dicci una cosa al volo, cioè qualsiasi cosa ti venga in mente.

Donata: Le strade a Milano si allagano quanto a Roma, ne ho le prove, ho raccolto i dati.

Grazie di essere stati con noi una cosa al volo è una produzione Team Lewis con la regia di Laura e Luca, il coordinamento editoriale di Maria Pia e le voci di Alessia e Tommaso. 

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