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LEWIS

Di

TEAM LEWIS

Pubblicato il

Novembre 4, 2022

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Nel terzo episodio di Una Cosa Al Volo, abbiamo parlato con Valerio Bassan di newsletter, strategie digitali, media, giornalismo e di tutti i loro possibili intrecci.


Ascolta l’episodio 3

Valerio Bassan

Valerio Bassan è un esperto di media innovation e strategie digitali. Ha co-fondato lo studio indipendente Supercerchio e scrive una newsletter sul futuro dei media, Ellissi. Ha collaborato con case editrici italiane e internazionali tra cui Forbes, VICE, Il Sole 24 Ore, Internazionale.

Valerio Bassan, ospite del podcast Una Cosa Al Volo

 

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Alessia: Parliamo di newsletter, un fenomeno che sta prendendo sempre più piede e che fondamentalmente sta diventando un canale di comunicazione sempre più utilizzato sia dai creator che anche dalle stesse aziende. È con noi Valerio Bassan, strategist e editor di una newsletter che si chiama Ellissi. Ciao Valerio.

Valerio: Ciao!

Alessia: Allora, come dicevamo, hai questa newsletter molto conosciuta, Ellissi. Come è nata l’idea di lanciarti in un progetto di questo tipo?

Valerio: È nata come una sorta di diario di viaggio molto personale, come penso una buona parte delle newsletter. È nata in pandemia, quindi marzo 2020, per mettere a terra delle idee, delle riflessioni sul mondo dei media, perché di quello parla Ellissi, ogni settimana. Qualcosa che mi costringesse a scrivere quello che frullava nella mia testa. Un progetto completamente vanity, se vogliamo definirlo in modo onesto, che come tanti altri progetti, nasce senza una particolare direzione o ambizione e si sviluppa col tempo. Ed è una delle cose belle delle newsletter, secondo me, il fatto che sia uno strumento anche molto interattivo che può cambiare nel corso del tempo, si può sperimentare e soprattutto si possono avere dei feedback dalla community. Ellissi nasce con l’idea di essere ogni venerdì una piccola column di opinione sul mondo dei media, alla Seth Godin come taglio, una riflessione molto breve e molto concisa. Tempo quattro puntate stavo già scrivendo dei papiri da 20.000 battute. Quindi quella che era un po’ l’idea originaria è subito diventata qualcos’altro ed è cresciuta oltre ogni aspettativa, oggi come numero di iscritti siamo a 8500. E devo dire è cresciuta anche in una direzione che mi piace molto perché mi ha permesso di non solo mettere a terra i miei pensieri, ma imparare tanto dalle persone che rispondono alle newsletter che secondo me è il vero fattore interessante e di cambiamento di questo tipo di canale di comunicazione. È molto one to one, molto privato, ma allo stesso tempo invoglia le persone a dire che cosa pensano senza esporsi in una conversazione, in un’arena social dove magari c’è la paura, il timore di essere aggrediti dai lati per quello che si sta dicendo. E questo rapporto relazionale, secondo me, è un po’ paradigmatico di quello che è anche interessante dei media oggi, cioè cercare di coltivare una community che ti segue, ti sfidi. E penso che Ellissi in piccola parte riuscito a fare anche questo.

Tommaso: Allora tu hai appena detto che Ellissi è nata e cresciuta durante la pandemia. Hai utilizzato qualche tecnica particolare per aiutare a farla crescere o solo lavoro di contenuto? Magari hai utilizzato delle tattiche non convenzionali, qualcosa di particolare?

Valerio: Sono abbastanza tradizionale da questo punto di vista. Non ho mai avuto programmi di referral, per cui fai scrivere qualcun altro per ottenere qualcosa, non ho mai acquisito liste, anzi sono completamente contrario a questo tipo di pratiche, le sconsiglio ai miei clienti in primis. Più che altro perché è meglio avere dei numeri piccoli, ma avere dei numeri e delle persone reali e realmente interessate.

Tu per ricevere una newsletter ti iscrivi. Quando ti iscrivi vuol dire che hai una sorta di patto con l’autore o l’autrice della newsletter, e ovviamente lo metti un po’ alla prova. Gli stai chiedendo “Ma quello che mi hai promesso in questa bellissima landing page è effettivamente quello che mi arriverà nella casella di posta?” e poi settimana dopo settimana la relazione si sviluppa oppure non si sviluppa.

Alessia: Giustamente tu parlavi del cosiddetto patto con il lettore. È anche un po’ quello che caratterizza i giornali o comunque i media, il modo di fidelizzare il proprio lettore per cui in qualche modo si crea un rapporto di fiducia. Cosa non funziona che porta poi a una sorta di unsubscribe?

Valerio: Il patto con il lettore si fa allineando gli incentivi e quando si parla di allineamento agli incentivi si intende che quello che tu offri deve essere allineato a un bisogno che l’audience ha. Quindi il primo passo è quello di capire “qual è il bisogno dell’audience?”, anzi, “chi è l’audience?”. Perché io lavoro come consulente dei media e la prima domanda che mi viene fatta da aziende media illuminate è “Non sappiamo più a chi stiamo parlando”. A quel punto si identificano i bisogni di quella coorte di persone e si modella poi il prodotto editoriale o lo si aggiusta in base a questo meccanismo che è mutuato dal tech e dal business, cioè proprio il market fit che un prodotto ha editorialmente. I giornali difficilmente hanno ragionato negli anni come: “Siamo una start up”, “Dobbiamo avere un marketing”, “Dobbiamo avere un’audience di riferimento”.

Esistevano perché l’informazione è un bisogno democratico assoluto. C’è da dire che le cose sono cambiate talmente tanto e la concorrenza si è allargata e diversificata nei confronti dei giornali, e ora quasi tutti si sono invece resi conto che devono un pochino guardarsi dentro e ristrutturare il proprio modello di business. Quindi tutto questo patto con il lettore parte da: “Il mio servizio qual è? Il bisogno vostro qual è? Lo sto risolvendo? Non lo sto risolvendo?”

Quando queste cose si allineano, gli incentivi si allineano, i lettori sono incentivati a fruire e magari anche a finanziare direttamente la testata.

Tommaso: Un autore di una newsletter quando capisce che deve cambiare marcia o comunque che qualcosa non va in qualche modo? Cioè ci sono dei sintomi in un certo senso?

Valerio: Dipende sempre qual è l’obiettivo finale. Nel senso che una newsletter può essere il tuo side project o può essere la tua vita, quindi puoi essere un creator full time, part time o un hobby e quindi avere diversi obiettivi. Quindi se il tuo obiettivo è che la newsletter diventi una buona parte del tuo guadagno, del tuo lavoro, chiaramente indicatori da vedere sono: la crescita delle iscrizioni gratuite , se c’è un modello di business legato agli abbonamenti, e ovviamente anche capire se le persone continuano a iscriversi con un tasso di abbonamento sufficiente rispetto a quelli che sono i tuoi obiettivi e se rimangono. Perché la grande sfida dei paywall, la grande sfida degli abbonamenti digitali, e qui parliamo di media in senso ampio, parliamo anche di Spotify, di Netflix o della palestra, è che le persone nel tempo mantengano un valore economico sufficiente per l’azienda. Quindi è ovvio che se io mi abbono e poi dopo un mese mi disabbono è un’occasione persa. La cosa bella del modello di business basato sugli abbonamenti è che sono ricorrenti, quindi a inizio anno, se sei una media company, e hai tot migliaia di abbonati bene o male, quello ti permette di fare una previsione sensata di introiti che avrai nell’anno. La pubblicità invece la controlli molto meno. Quindi, dal punto di vista del creator singolo io guarderei assolutamente queste due cose perché, di base, si converte. La subscriber base, quindi gratuita, su 1000 iscritti gratuiti, quelli molto bravi riescono a far pagare il 5%. Questo dà anche un po’ l’idea della sfida: non solo convertire quel 4-5%, ma anche mantenerlo nel tempo. E quindi, a un certo punto, il bacino di persone che ha deciso di non iscriversi perché la versione free è sufficiente, perché non ha voglia di spendere soldi in quella newsletter o di sostenere quel creator direttamente, lo monetizzi con la pubblicità. Quindi, se la vuoi leggere gratis ecco qui un bellissimo sponsor che ti racconta il suo prodotto, oppure vai ad ampliare questo database di iscritti in modo tale che quel 3-4% di conversioni sia su un numero sempre più ampio, fino al punto in cui arrivi e dici: “Sono soddisfatto, sto guadagnando i miei 1.800, 2.200, 2.500 euro al mese e mi va benissimo così”. È ovvio che qui entriamo in un campo fiscale in cui non mi addentrerò, però c’è anche il tema poi di pagarci le tasse sopra. Molte piattaforme hanno dei giri fiscali, non semplici da capire anche per i commercialisti d’Italia, perché magari Patreon negli Stati Uniti è un intermediario d’imposta oppure no? Quella che emette come nota di credito non è una fattura… quindici sono anche queste challenge. Ragioni come un’azienda fondamentalmente, quindi hai bisogno di supporto da più parti.

Alessia: Tornando al discorso che non è sempre detto che un lettore sia pronto poi a pagare, credi che sia anche un problema legato un po’ alla cultura che abbiamo in Italia? Secondo te il lettore medio italiano è pronto per far diventare questo sistema della subscription qualcosa della sua quotidianità? Non vale solo per le newsletter, penso anche semplicemente ai giornali. L’Italia secondo te è pronta per intraprendere sempre più questa strada e renderla la principale?

Valerio: Non tutti, secondo me, sono pronti ad abbracciare questa sfida e non è neanche detto che sia giusto che lo facciano tutti. Perché comunque c’è un differente potere di spesa delle persone e lo vediamo anche molto bene in questo periodo tra inflazione e aumento dei costi, che fa fare delle scelte sulle priorità di ciascuno. Quindi, posso ancora permettermi Netflix? È una cosa che ritengo fondamentale nella mia vita, si o no? Se la risposta è sì, continuo a pagarlo se la risposta è no mi disiscrivo. Quindi è ovvio che anche le subscription non sono immuni dalle fluttuazioni del mercato dell’economia. l’Italia che ha un 13% di persone che pagano per le news, secondo i dati di Reuters di quest’anno, impallidisce al confronto con i Paesi scandinavi, dove circa il 40% di persone sostiene direttamente un giornale o una fonte di informazione, che in alcuni casi può anche essere un creator.

E questo, diciamo, attinge a una serie di motivazioni storiche in Finlandia o in Svezia, che hanno una storia di fiducia mai tradita pluridecennale. Quindi le persone sono sempre state abituate a questo, probabilmente in Scandinavia vale così tanto il ruolo dell’informazione e sanno che comunque la loro piccola parte la vogliono, o la devono fare, e anche se prima era carta e ora digitale, comunque continuano con i soldi per un progetto informativo che li soddisfa e che gli piace. Ma è una forma mentis unica al mondo, perché in realtà noi siamo molto più nella media. Anche gli Stati Uniti non investono su cifre così tanto più elevate a livello percentuale. Ovviamente quello che succede, per esempio negli Stati Uniti, è che ci sono pochi poli accentratori che prendono tantissime iscrizioni, lasciando agli altri le briciole.

Quindi ovviamente i 13-14 milioni del New York Times non sono replicabili. Il Washington Post ci ha creduto, ora ha capito che anche loro non riusciranno mai a competere da quel punto di vista. E infatti in quel giornale c’è un po’ di maretta in questo periodo, anche perché a livello business non sta andando bene come sembrava andare fino a qualche mese fa.

Nessuno è immune e per nessuno è facile. La cosa che io cerco sempre di spiegare alle testate con cui lavoro è di non innamorarsi troppo delle storie di successo degli altri. Ma questa forse una lezione un po’ più generale di vita. Perché le condizioni sono diverse, cambiano nel tempo e ogni mercato è diverso dall’altro. Se arriva qualcuno che mi dice io voglio fare il New York Times italiano, tendenzialmente dico: “Aspetta un attimo, facciamo un’altra cosa italiana, che però ti rende sostenibile il computo economico della tua azienda”. Quindi sì, c’è una potenzialità in Italia non colta.

Secondo me le persone sono assolutamente pronte a pagare. Magari non siamo la Scandinavia, ma questo 13% potrebbe anche raddoppiare. Secondo me bisogna lavorare con proposte di valore e offerta di un servizio molto forte per convincere le persone, perché comunque tutti i grandi brand si portano dietro uno storico.

Forse, a parte Il Sole 24 Ore, che ha la potenzialità di essere sia B2C che B2B e allo stesso tempo offre servizi a commercialisti e avvocati. Quindi, un servizio più monetizzabile in molti modi diversi. Anche le testate più generaliste stanno comunque diversificando, facendo i podcast, gli eventi, facendo la formazione e non solo, appunto, vendendo il giornale e il giornalismo.

Magari si trovano un pochino più nel guado di scontare il peso e la forza di brand che hanno anni di storia, ma che non sono più così tanto nella mente delle persone e non sono ritenuti al 100% credibili. Quando tu devi fare una scelta su dove investi i tuoi 30€ di subscription al mese, e già parliamo di cifre che possono investire forse il 5% degli italiani, dai sicuramente priorità alla parte d’intrattenimento, perché la vita è già difficile, quindi voglio: la mia musica, il mio YouTube, voglio il mio Twitch e voglio il mio Netflix. Se avanza qualcosa, e questo è proprio parte del problema, decido se darlo magari a un giornale. Come si fa a far tornare i giornali in un ruolo di maggiore rilevanza o almeno uguaglianza rispetto alle piattaforme di intrattenimento?

Non è facile, perché è un continuo fare a pugni anche con le piattaforme che usiamo tutti i giorni. Banalmente, le nostre vite sono già molto piene di impulsi elettronici e di format che ci inseguono. Il giornale compete con questo tipo di prodotti, cosa veramente difficile anche a livello pubblicitario. Le piattaforme oggi si mangiano tantissima pubblicità che un tempo andava ai giornali e ora va direttamente su Meta, su Google o su TikTok.

Quella è una parte del problema, l’altra parte del problema è l’attenzione. Quindi come faccio a battere con Push Notification su la guerra in Ucraina un video su TikTok di un creator che seguo? È veramente difficile, proprio perché tecnologicamente sono molto più avanti di qualsiasi giornale in questo momento e quindi la sfida tecnologica è un po’ persa. Quindi, diventa difficile anche fornire dei servizi che siano minimamente paragonabili a livello di esperienza utente a TikTok.

Un giornale generalista fa a pugni con il poco spazio di attenzione che ci viene lasciato libero da tutto quello che ci bombarda costantemente. E però è proprio lì che bisogna agire e forse lo si può fare solo partendo da dei valori. La sfida è far capire alle persone quanto è importante il giornalismo per far stare meglio tutta la comunità di persone che gli sta intorno.

Complicato, ma bello.

Alessia: Bene, ci apriamo una birra e proseguiamo?

Alessia: Allora…

Tommaso: No aspetta, volevo chiedere una cosa! Intanto sappiamo già che conosci il nostro buzzer, NIC.

Valerio: Si. Ah, ha un nome?

Tommaso: Si, NIC, acronimo di “Not Interesting Content”. Diciamo che da un certo punto di vista i giornalisti creator si sono staccati dalle redazioni. Ma per ristrutturare il business model, di cui hai precedentemente detto delle redazioni dei giornali, non è possibile fare un processo inverso? Ingaggiare alcuni creator per divulgare determinate notizie sui social, in modo diverso?

Valerio: Sì, è possibile e devo dire che è già in atto. Sempre di più io sento dalle redazioni dei giornali, anche per motivi di struttura, di come funziona essere un giornalista o una giornalista in Italia, restii a mischiarsi con chi fa divulgazione. Anche se i magazine hanno sempre avuto soprattutto tantissimi collaboratori. La scrittrice, che non è una giornalista, è una creator (se vogliamo siamo tutti creator di contenuti anche in questo momento, facendo questo podcast) che fa il suo editoriale su un tema di attualità per il giornale. Quindi non parla solo del suo libro, ma anche di temi legati al giornalismo, e lo fa in modo giornalistico in molti casi. Quindi, non lo vedo come una scissione o una novità. Ora, ovviamente, il fattore diverso è che ci sono persone che nascono già come divulgatori di contenuti legati a un tema, che hanno coltivato la propria community, che da un certo punto di vista può anche fare gola al giornale.

Se tu sei uno YouTuber, che per sei anni ha parlato di scienza e spazio su YouTube, e io sono un giornalista e voglio aprire una sezione di scienza e spazio, magari mettiamo qualcuno che ha una sua credibilità e una sua community. La sfida è convincere molti creator ad accettare il potere del brand del giornale che è ancora molto forte, per fortuna, ed è giusto che lo sia anche l’indipendenza che è un valore per i creator. L’idea di affiliarsi troppo a un brand giornalistico magari può essere anche vista come un problema. Dipende tutto dal modo in cui i giornali possono strutturare questa proposta, però, sta già avvenendo in qualche modo. Questo “rientro dei cervelli”, diciamo. Ma no, è una parola sbagliata.

SUONO DEL BUZZER NIC

“Rientro dei cervelli” no, perché i giornali sono pieni di persone intelligenti, per fortuna, ma di riacquisizione di talenti che sono anche appartenenti all’esterno di una redazione. Lo stiamo già vedendo succedere e in modo anche non canonico. Ci sono collaborazioni tra testate digital nuove e giornali con 150 anni di storia, quindi è assolutamente un mondo molto in evoluzione, costantemente. E devo dire che noto molto meno scetticismo a includere divulgatori che non siano giornalisti in progetti di collaborazione per le testate. Chiunque può imparare anche dall’altro. Quindi per il creator che ha sempre fatto da solo, potrebbe essere una fantastica opportunità avere l’appoggio, essere seguito da una redazione molto skillata e preparata su alcuni temi e viceversa, farebbe comodo al giornale la freschezza del linguaggio e la credibilità del volto.

Detto questo, i giornali hanno sempre venduto con le firme. Quindi, altra cosa da dire, i Gramellini ci sono sempre stati, hanno sempre fatto abbonati e hanno sempre fatto copie vendute. Quindi la firma in sé, che non è il volto nello specifico o non sempre, però può diventare anche il volto di un video o voce in un podcast, ha sempre trainato tanto questi aspetti di fiducia. Io vedo i giornali come dei collettivi di collaborazione. Però ci sono sempre delle figure che si proiettano verso l’esterno. Storicamente ci sono sempre state. A volte magari era più la parte dirigente del giornale, adesso ci sono anche un po’ in tutti gli ambiti, a seconda del canale, un volto che emerge, e quel volto raccoglie e coltiva la sua community all’interno del brand più grande che è quello del giornale. Quindi la sfida è anche costruire un discorso coeso tra tutte queste firme, questi volti, che spinga la missione del giornale nella direzione in cui tu vuoi che vada. Parlo di giornali, ma possiamo parlare di tv, di radio in generale, di media e di informazione.

Alessia: Può essere che uno dei valori aggiunti che i creator potrebbero portare nei giornali, che forse ora manca, è proprio quel potere delle relazioni, quella capacità di aver creato una community molto propensa a seguirli, è probabilmente questo potere delle relazioni, quello che oggi manca ai giornali e di cui hanno maggiormente bisogno? Quindi, al di là poi del creator in sé, è proprio quella capacità relazionale che è venuta meno e che bisogna provare a ricostruire?

Valerio: Allora sì e no. Nel mio piccolo anch’io ho ricevuto un’offerta per portare Ellissi dentro un giornale, ma non mi interessava. So benissimo che nel momento in cui lo faccio mi scollo dalla mia community, in qualche modo. La mia preoccupazione era quella di avere, non dico meno controllo, perché garantiva la totale indipendenza. Però c’era un intermediario di mezzo. Quale valore aggiunto mi dava l’intermediario? Personalmente io non l’ho visto e non per la testata in sé che mi ha contattato, ma proprio perché mi sembrava strano cambiare un modello senza avere un chiaro ritorno di quale fosse il vantaggio.

Io scrivo regolarmente su D di Repubblica, però cose diverse da Ellissi, parlo comunque di media, ma lo faccio con un taglio leggermente diverso e lo faccio contestualmente con temi che non tratto su ellissi, quindi non c’è convergenza di contenuti. I giornali però hanno bisogno di quella community molto spesso, anche se deve essere l’inserimento di una community in un’altra community. Quindi deve esserci un match. Tu non puoi portare 100.000 persone che seguono il tuo podcast, per esempio, dentro a Repubblica e per forza le cose funzionano. Non è mai una somma 100.000 più 10 milioni 10.100.000, no. Perché molti non ti vorranno più seguire,

perché non gli piace quel brand, e ne arriveranno altri che condividono la tua visione. Quindi è tutto un discorso di equilibri, secondo me. Però i giornali possono assolutamente beneficiare dal rapporto diretto e forte che i creator hanno con le loro community. Il tema è come lo rendi credibile quando ci metti un brand grosso sopra. E questo vale anche per le aziende, è un discorso che a tutto tondo vale nella comunicazione con un’influencer con cui lavorare o con un ambassador per il tuo prodotto. Devi sceglierlo bene.

Insomma, porta la tua community, sviluppala internamente, ma se le due cose non hanno un match e la cosa non funziona è rischioso per entrambi.

Alessia: Parliamo del mezzo con cui poi una newsletter effettivamente viene lanciata fuori. Si usa la mail che, come ci eravamo anche già detti in passato, ha più di trent’anni ed è un mezzo vecchio. In realtà, in un’epoca in cui il digitale corre velocissimo; eppure, si usa ancora un mezzo così antico. Qual è il fascino che c’è dietro la mail?

Valerio: Penso che sia dettato soprattutto dal fatto che le mail sono fondamentalmente l’unità, l’atomo di cui abbiamo bisogno per esistere online. Per aprire un account su qualsiasi piattaforma abbiamo bisogno ancora di un indirizzo e-mail, per inviare un pagamento, quindi per acquistare qualcosa su una piattaforma abbiamo bisogno della mail. Finché non si trova un’alternativa funzionale, le mail restano e restano anche in modo molto importante.

A livello lavorativo ovviamente le mail hanno la concorrenza di piattaforme come Slack, per esempio, per comunicazioni interne. Ma anche per usare Slack ho bisogno di una mail, quindi è interessante anche questa dinamica.

L’altra questione è che le mail non sono algoritmicamente filtrate. La mail è una cosa che tu scegli, sai quando ti arriva, sai in che forma ti arriva. Nella sezione “Per Te” di TikTok sai che ci sono delle cose per te, non sai quando e non sai bene quando ti arriveranno. Quindi è comunque uno strumento che offre una diversità rispetto a quello che è il 70-80% di internet oggi, alimentato dall’intelligenza artificiale. Questo è ancora un prodotto che, bene o male, rispetta la sua promessa in modo molto chiaro. La stessa cosa che possiamo dire dei giornali.

Tendenzialmente ti puoi fidare della persona o delle persone che ci sono dietro. Però è interessante anche questo aspetto, secondo me importante, della mail che non credo andrà a scomparire. C’è sempre grande dubbio: quando le generazioni più giovani invecchieranno, la mail continueranno a usarla oppure no? Dipende dal mercato del lavoro, perché fondamentalmente un sedicenne magari della mail oggi se ne fa poco. Ce l’ha per avere l’account su Twitch, per comprare su Amazon, ecc… Quando la mail diventa uno strumento importante per le persone? Di base, quando si entra nel mondo lavorativo, quindi, se il mondo lavorativo continuerà ad avere bisogno di mail,  non importa la generazione con quale consonante finale sarà, ma inizierà a usare la mail dai 23-24 anni in avanti e farà parte del proprio bagaglio e quindi anche le newsletter potranno continuare a esistere.

In alternativa, la mail rimpiazzata da qualcos’altro, magari le newsletter, diventa parte di quel qualcos’altro o semplicemente non sono più uno strumento che ha un canale, perché la tecnologia evolve. In realtà ci sono stati in passato sicuramente degli esempi di contenuti che per decadenza del mezzo o del canale sono scomparsi. Anche i giornali di carta. La carta è un ottimo device a livello di leggibilità, è uno scomodo device perché devi andare fuori a comprarlo, perché è grosso, perché sporca, perché costa, magari anche di più. Quindi, la carta come device è funzionale per veicolare il giornalismo, forse è più piacevole per alcuni. Personalmente se un’app è fatta bene non trovo grandi differenze nella piacevolezza di lettura rispetto al giornale di carta, però anche quando cambia o obsolesce la tecnologia (non so se è un verbo) ti adatti, se non riesci cambi e se cambi bene, cambi anche in meglio.

Le newsletter potrebbero fare qualsiasi fine in questo momento e noi non ne abbiamo la più pallida idea.

Alessia: Un po’ per chiudere il cerchio, abbiamo parlato di intimità. Credi che magari il successo oggi e anche questa rinascita delle newsletter sia in parte dovuto al fatto, come dicevi, che siamo molto su piattaforme dove c’è qualcun altro che sceglie per noi; quindi, vari algoritmi che guidano i contenuti che ci appaiono sui nostri profili social.

Ecco, magari l’essere ritornati a una dimensione dove sono io che decido di iscrivermi a una newsletter, decido io quando voglio leggerla, non mi viene imposto il momento di un’app, posso riprendermi il mio tempo. Ecco, questo rapporto intimo che si crea con lo scrittore, l’editor di newsletter, forse è proprio quello il successo oggi, in un’epoca così frenetica, tiriamo il freno a mano del nostro tempo libero.

Valerio: Assolutamente sì. Sicuramente quello è il motivo per cui le newsletter, ricordiamocelo tutti, sono una nicchia e restano una nicchia. Il commitment, l’impegno che richiede una newsletter, anche solo a livello di scoprire che esiste, di interessarsi, di iscriversi, di ricevere e poi di aprirla e magari di aprirla tutte le settimane, è talmente elevato che è chiaramente una cosa che è affascinante solo per chi ha tempo e voglia di investire energie e risorse. Invece per chi le riceve assolutamente la forza è quella, è proprio il fatto di dire mi sto costruendo la mia dieta e la sto costruendo basandomi su dei volti o delle firme che mi stanno particolarmente a cuore.

E non so che cosa ti faccia affezionare così tanto. Personaggi di una serie tv forse, o i creator che ti portano dentro le loro camerette, le loro case, i loro uffici e le loro esperienze. Quindi forse lo step ulteriore è sul linguaggio video, ma nel linguaggio testuale questa affezione così forte con la newsletter non è battuta da nessuno. Un tempo magari ti affezionavi tanto alla rubrica dentro il magazine, e ancora lo vediamo. Internazionale che ti ho citato prima, per esempio, ha un’affezione molto forte sia sull’Oroscopo che sulle rubriche di firme storiche che ormai sono parte della vita delle persone. Ma quelle sono delle newsletter in pagina e sono molto spesso delle rubriche via mail, quindi è un po’ lo stesso linguaggio e stesso livello di coinvolgimento emotivo, che è bellissimo.

Tommaso: Quindi per chiudere un po’ la puntata, come sempre facciamo noi, ti chiediamo appunto una cosa al volo, un qualsiasi pensiero.

Valerio: Penso che stamattina, venendo qui con il tram, guardando fuori, mi sono reso conto di quanto le persone fossero diverse l’una dall’altra in uno spicchio di una via. Quindi c’era un po’ un microcosmo, tutto molto ravvicinato, in quel momento, di persone di nazionalità diverse, background diversi. Insomma, mi ha affascinato molto questa visione dal finestrino del tram, pensavo che… poi magari voi volevate una risposta che non parlasse di media, però io purtroppo ho questo bias, penso sempre a quello, con buona pace delle persone che mi stanno intorno. Forse questa diversità non è molto rappresentata nelle redazioni dei giornali e questo è un peccato. A volte i media non assomigliano più tanto alla società che raccontano. E invece sarebbe secondo me una grande spinta, molto bella quella di cercare di lavorare perché questa cosa avvenga. Che sia poi dal finestrino di un tram o in una redazione poco cambia. Però io la vedo soprattutto in tempi come questi, come una sfida un po’ che ci coinvolge tutti quanti, di cercare di essere più somiglianti a quello che è veramente la società, e non fare finta che la società sia un’altra cosa. Perché i cambiamenti sono in atto, bisogna prenderne atto e abbracciarli ed esserne parte fondante.

È un ruolo del giornalismo molto importante, ma un po’ si applica a tutto.

Tommaso: Grazie per essere stato con noi Valerio, alla prossima.

Alessia: E ci leggiamo su Ellissi!

Valerio: Grazie mille ragazzi alla prossima.

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